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La scomparsa di Patò

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Sicilia. L’isola che tanto aveva affascinato Goethe a fine Settecento, è la terra dove non solo una modernità discreta si apre su una storia profonda come l’Etna, ma nella quale ci sono accesi contrasti tra i colori, così come nella società, nonché forti contraddizioni nel comportamento dell’uomo, il cui agire – come diceva Pirandello – è perennemente coperto da una maschera che ne cela la vera natura. Il singolo individuo pertanto si deve muovere tra i suoi simili come un equilibrista, oscillando sulla corda di un’ambigua doppiezza.

A questo quadro non si sottrae la scrittura del grande Andrea Camilleri, recentemente scomparso a Roma dopo lunga malattia (leggi l'articolo). La penna dello scrittore, padre de Il Commissario Montalbano, ha tratteggiato una Sicilia seducente e al contempo misteriosa, in certi frangenti sinistra (e la sigla di Montalbano ne rende perfettamente l’idea).

Al di fuori del celeberrimo commissario, fusosi con la persona di Luca Zingaretti, Camilleri si è cimentato in romanzi ambientati in altri luoghi ed altre epoche.

Alla Vigata dei nostri tempi, luogo immaginario composto dagli scorci più affascinanti del territorio ragusano, corrisponde una Vigata di altri tempi, precisamente di fine Ottocento. L’abbiamo vista di recente nei film tv La mossa del cavallo (Febbraio 2018; protagonista Michele Riondino) e La stagione della caccia (Febbraio 2019; protagonista Francesco Scianna).

Nel 2012 – perdonate il salto all’indietro – nei cinema era uscito La Scomparsa di Patò, tratto dall’omonimo romanzo pubblicato da Mondadori nel 2000. Il regista Rocco Mortelliti era riuscito nell’impresa di dirigere uno straordinario e versatile gruppo di attori composto da Neri Marcorè, Nino Frassica, Maurizio Casagrande, Flavio Bucci, Simona Marchini, Roberto Herlitzka e Manlio Dovì (per citare i più conosciuti).

La particolare natura del romanzo ha condizionato – in senso positivo – la fisionomia del film: la storia della scomparsa di Patò non si svolge in modo lineare, cioè attraverso una classica e canonica successione di capitoli, ma si sviluppa in una serie di documenti di vario tipo come lettere, verbali, articoli di giornale, messaggi sui muri. Potrebbe sembrare confusionario, ma il lettore e lo spettatore scoprono la verità come se stessero partecipando alle indagini a fianco della coppia Maurizio Casagrande – Nino Frassica, nei panni rispettivamente di Ernesto Bellavia, delegato di Pubblica Sicurezza (cioè Polizia) e Paolo Giummaro, maresciallo dei Carabinieri.

Interessante è notare come, ad un certo punto del film, le scene si succedano con l’apertura e la chiusura di quinte teatrali, e che i due detective scoprano la verità immergendosi virtualmente nelle situazioni così come probabilmente si sono svolte.

La storia prende avvio nel 1890 durante la rappresentazione, sulla pubblica piazza, del Mortòrio, termine prettamente siciliano per indicare la trasposizione teatrale della Passione di Gesù Cristo. Sia il pubblico che gli attori sono l’eccezionale fotografia di una società dove le classi sociali sono un principio indiscutibile.

Il Ragionier Antonio Patò ricopre uno dei ruoli più in vista nella Passione, quello di Giuda Iscariota, il traditore per antonomasia. Egli è nipote di un illustre senatore, Artidoro Pecoraro, fondatore della Banca di Trinacria e figura impegnata in traffici di dubbia limpidezza. Il potente Pecoraro non è esente dal nepotismo, dal momento che alla Banca di Trinacria colloca proprio l’amatissimo nipote.

Come impiegato Patò è professionale ed impeccabile al massimo livello; alla perfezione lavorativa fa riscontro una vita coniugale limpida e specchiata. Insomma, è l’uomo che non ha vizi e non commette errori. Ma c’è qualcosa che egli nasconde dietro cotanta perfezione: la sollecitudine nel frequentare casa Infantino, dando una mano al collega Ragionier Cardillo, è un’abilissima copertura per la relazione che egli intrattiene con la moglie di quest’ultimo, la bellissima Rachele. Qualche goccia di sonnifero nella minestra, Cardillo scivola in un sonno profondo, e i due amanti sono liberi di poter dare sfogo alla loro passione. La storia va avanti in modo clandestino ma, continuando a crescere, i nascondigli non bastano più: Vigata è troppo stretta e rischiosa.

A questo punto della storia, il colpo di genio: Patò organizza un astutissimo piano per fuggire senza dare adito a sospetti. Durante la scena del suicidio di Giuda, l’attore finge di impiccarsi. Piomba in una botola, sparendo sotto il palco. Dalla ricostruzione della coppia Bellavia – Giummaro emerge come Patò si sia recato ai camerini allestiti presso il palazzo della Marchesa Imelda di Saint-Just, trovando il materiale necessario a camuffarsi per svignarsela indisturbato: non a caso si traveste da contadino.

Ora può veramente fuggire con la sua Rachele. Il problema è che la scomparsa di Patò e quello della signora Infantino verrebbero immediatamente collegati, scoprendo in un lampo la verità. I due amanti mettono in scena il finto omicidio di Rachele: la scena del crimine viene realizzata sgozzando una gallina su alcuni vestiti gettati tra i rovi. Quando il marito farà la triste scoperta, piomberà in un cupo dolore, dato che – almeno da parte sua – l’amore era autentico.

La verità ricostruita dal poliziotto e dal carabiniere purtroppo non può essere raccontata né alla moglie– che, fedelissima all’immagine che ha del marito, si rifiuta di credere allo svolgimento dei fatti – né al potente zio Artidoro, dato che l’onore della famiglia ne verrebbe fortemente compromesso. Pertanto il dossier, su pressione dei rispettivi superiori – Arturo Bosisio (capitano dei Carabinieri, alias Flavio Bucci) e Liborio Bonafede (commissario della Polizia, alias Gilberto Idonea) – viene rimaneggiato, come se fosse un romanzo nel romanzo, con la scrittura di un finale alternativo. Patò in realtà dopo la caduta nella botola ha battuto la testa, vagando per le campagne di Vigata e finendo per morire di stenti. Al potente zio pertanto vengono mostrati in obitorio i resti (irriconoscibili) di un morto a caso, riesumato dal becchino-filosofo Don Carmelo (alias Roberto Herlitzka).

Dal racconto di Camilleri (libro) e Mortelliti (film), pur con qualche differenza emerge un Patò abilissimo e diabolico regista della propria sparizione, con colpi da maestro come la lettera minatoria che confeziona di suo pugno e che attribuisce all’analfabeta Gerlando Ciarramidàro, provocando in banca una zuffa in cui lui appare come la vittima, oppure come la truffa che mette a segno contro il capo mafioso Calogero Pirrello (alias Manlio Dovì), quando questi gli affida una forte somma ottenendo in cambio una ricevuta che al momento della riscossione si rivela essere fasulla. Inutile aggiungere che alla ricevuta fasulla corrisponde, guarda caso, la sparizione della relativa somma.

In conclusione possiamo dire come la Sicilia che vediamo in questo film sia una terra di scorci e paesaggi meravigliosi ma incredibilmente simile a quella attuale, dato che il comportamento dell’uomo, fatto di virtù ma ancor più di vizi, ipocrisie ed astuzie, scorre come un fiume attraverso le epoche e i luoghi.

 

 

  Massimo Bonomo – Onda Musicale 

 

— Onda Musicale

Tags: Neri Marcorè/Sicilia
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