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Van Halen: recensione del disco di debutto “Van Halen”

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La famiglia Van Halen migra dall'Olanda verso gli Stati Uniti nel febbraio del 1962. Alex, Arthur e Eddie Lodewijk figli di un sassofonista /clarinettista professionista furono avviati da giovani allo studio della musica e così mentre il primo fu inizialmente interessato allo studio della chitarra, il secondo si trovò a dover simpatizzare quasi forzatamente con un pianoforte.

Eddie che dimostra un talento naturale per la musica (da giovanissimo vinse anche numerosi saggi!) presto avverte stretta l'impostazione accademica e sempre più forte il bisogno di sfogare la sua agitazione attraverso la chitarra, abbandonando così anche lo studio della batteria che assorbì in toto il primogenito.

Dai primi sodalizi musicali che avvengono con i compagni di classe – storia comune a quasi tutte le star in erba -, i promettenti fratelli olandesi danno vita a Space Brothers, The Trojan Rubber Company, The Broken Combs (in cui Alex suonava il sax), Genesis (sì lo so è un'omonimia nobile…) e Mammoth. Quest'ultima formazione con Alex dietro ai tamburi e Mark Stone al basso vedeva Eddie nelle vesti di chitarrista e cantante per dar vita ad un suono originale, vivace e rigoglioso.

Il grande salto avvenne quando le strade dei fratelli Van Halen incrociarono quelle dei Red Ball Jets il cui cantante tale David Lee Roth, proveniente da Bloomington (Indiana), finì per essere colui che affittava l'amplificazione ai Mammoth, divenendone l'unico ed indiscusso singer e non solo!

Il biondo David dal fisico atletico era un vero showman, un innegabile punto di interesse dell'universo femminile, quello di cui i Mammoth avevano necessariamente bisogno come di un bassista al di sopra delle righe, che fu trovato nel possente Michael Anthony al tempo negli Snake..

Mancava soltanto il nome e su suggerimento del geniale David venne scelto proprio Van Halen, un monicker che cominciò a farsi strada tra feste private e i numerosi club della California del sud per poi arrivare ai più rinomati Gazzarri's e Whiskey A Go-Go sul Sunset Strip.

Dopo l'illusione dell'interessamento di Gene Simmons (che voleva cambiargli tra l'altro il nome in Daddy Longlegs) che durò meno di un battito di ciglia, giunse il più sincero e fruttuoso intervento di Marshall Berle che convinse il poco più che trentenne Ted Templeman ad assistere ad un live-act dei giovani e volenterosi Van Halen, culminando in un pressoché immediato contratto con la Warner Bros.

Il primo full-length album dei quattro di Pasadena è frutto di un naturale fluire di idee musicali che trovano nell'innovativo e potente suono di uno stile chitarristico ipertecnico, nelle sensuali e passionali vocals, un appropriato amalgama con l'impetuosa sezione ritmica, contraddistinguendo sempre l'unicità dei singoli componenti il cui humus va ben oltre la semplice somma delle parti. Undici brani di fattura robusta che divengono espressione di una originalità che tanto era attesa nel mondo dell'hard rock e che ha tutte le carte in regola per rinvigorire un genere da tempo dato per agonizzante, anche per via del contemporaneo interesse che la stampa britannica riservava al punk.

E' un piacere farsi trascinare da una "Runnin' With The Devil" ritmicamente composta dove i clamori primitivi sono cesellati da una sfavillante sei corde. La festaiola "Feel Your Love Tonight" trascina l'ascoltatore in un vortice fatto di melodia e ritmo che non può lasciare indifferenti, consentendo all'incisività di "Atomic Punk" e alla risolutezza di "On Fire" sancire cosa significhi suonare loud ‘n' proud.

Se con "I'm The One" si resta inevitabilmente vittima della mitragliata del riff iniziale, "Little Dreamer" e "Jamie's Cryin'" fanno da contraltare atmosfere corpose e vellutate che assicurano compattezza sonora all'intero disco. Discorso a parte per "Ain't Talkin' ‘bout Love" ed "Eruption": il primo, che si lascia introdurre da una corrosiva successione di note, esprime al meglio la tipicità di un sound ove impeto e disinibita coralità divengono le connotazioni vincenti, mentre per il secondo – in origine concepito come warm up durante il sound check -, il naturale talento di Eddie accompagnato a dovere dalla tuonante batteria del fratello maggiore, si lascia andare in un fragoroso solo ove un abile dimostrazione di tapping (tecnica ancora non molto familiare alla maggior parte degli ascoltatori) a velocità impensabile, si traducono in uno spettacolare biglietto da visita per un giovane chitarrista che sembra tutt'altro che un esordiente.

Come si conviene ad ogni band rispettosa per quello che è stato prima, il doveroso omaggio al passato avviene con una spumeggiante interpretazione di "Ice Cream Man" (che il blues man John Brim aveva già concepito nel 1953), mentre "You Really Got Me" (il brano da cui dipese la carriera dei The Kinks e che vide coinvolto un sessionman tra i più quotati di quell'epoca che portava – ancora – il nome di James Patrick Page) è un vero e proprio pugno nello stomaco che punta fortemente su di un riff dirompente di facile presa, proponendosi in una nuova veste ma per assurgere comunque allo status di graffiante hit.

L'omonimo disco dei Van Halen rappresenta una nuova ideazione di come il concetto di hard rock era stato inteso sino a quel momento: un mutamento che vira in direzione di un suono brillante e travolgente dove l'inedito funambolismo di un chitarrista poco più che ventenne spicca per inventiva e fantasia, in una crew in cui la fiamma della genialità è già pronta a divampare.

"Bastava vederli sul palco per un minuto, per capire che nessuno avrebbe potuto fermarli. Erano una miccia accesa".

(Gene Simmons, Kiss).

(fonte – link)

 

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Tags: Kiss/Van Halen/David Lee Roth/Michael Anthony/The Kinks/You Really Got Me/Gene Simmons
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