Musica

“Rap e Trap? Sono come i migranti: non c’entrano nulla con l’Italia”. A tu per tu con il critico Maurizio Scandurra: “Ci vorrebbe un Salvini anche nella musica”

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A tu per tu con il critico Maurizio Scandurra: “Ci vorrebbe un Salvini anche nella musica.” Qualcuno lo chiama il ‘Beppe Grillo della musica italiana’. Qualcun altro invece ‘il rottamatore del pop contemporaneo’, alla Matteo Renzi.

Di certo, Maurizio Scandurra è uno che non le manda a dire. Basta scorrere le molteplici interviste presenti sul web in cui ne ha per tutti quelli che non amano i mostri sacri della nostra canzone nazionale.

Come mi definirei? Piuttosto, un Francesco Cossiga del giornalismo musicale: picconatore per vocazione. Perché, per ricostruire bene, bisogna prima demolire ciò che non va”.

Personalità eclettica, battuta pronta, dialettica vulcanica e favella da vendere, l’effervescente e sagace critico musicale controcorrente (un passato importante in qualità di scrittore, biografo di artisti affermati e giornalista radiotelevisivo con collaborazioni di pregio in programmi di punta di Raiuno e Raidue) si batte da anni senza quartiere né sosta in difesa della musica italiana tradizionale, e dei suoi beniamini di sempre.

Dei grandi nomi del cantautorato e interpretariato, “Quelli che hanno fatto sognare, ballare e innamorare generazioni di italiani. E che, pur in attività e ancora in gran forma, per colpa del sistema giacciono discograficamente accantonati, messi in subordine. Abbandonati ai margini della musica come convogli ferroviari dismessi sui binari morti delle stazioni. Penso, tra i tanti, a figure del calibro di Ivana Spagna, Fiordaliso, Antonella Ruggiero, Gigi Finizio, Matia Bazar, Marina Rei, Andrea Mingardi, Fausto Leali, Fabio Concato, Sergio Cammariere, Gerardina Trovato, Alice, Mariella Nava, Gatto Panceri, gli Stadio, Eugenio Finardi, Rossana Casale, Grazia Di Michele, Teresa De Sio, Peppino Di Capri: e altri pari livello da tempo snobbati dalla discografia di Serie A”.

E traccia con dovizia di argomentazioni un profilo profondo, accorato e accurato. Un lungo excursus appassionato sino alle radici del problema, concesso in questa riflessione personale ed esclusiva a ‘Ondamusicale’. Tirando in ballo anche la sostituzione etnica, Mahmood, Ghali e persino Giorgia Meloni e Matteo Salvini.

A tu per tu con una delle voci più schiette e senza veli della scena giornalistica contemporanea.

 

Buongiorno, Maurizio. Rapper e trapper dominano la scena, senza accusare al momento segni di cedimento.

“Li considero parimenti, alla stregua dei migranti: non c’entrano nulla, entrambi, con l’Italia. Capre, come direbbe Vittorio Sgarbi: uno che, in fatto di arte, gusto e bellezza, la sa lunga”.

Un’affermazione senz’altro forte: dovuta a che cosa, principalmente?

“La nostra è una cultura densa di melodia, che trasuda poesia iconica e toccante, in cui discipline e inclinazioni artistiche nel loro insieme sono nate per cantare il bello: al contrario di questi due, consentitemi il neologismo, ‘degeneri musicali’. Per le proteste ci sono le piazze, le manifestazioni. Per la cocaina e le droghe di vario genere cantata nei loro testi il tribunale, per le istigazioni al piacere carnale trasgressivo il sessuologo: e, nei casi più gravi, il neuropsichiatra, l’interdizione. Una volta, con le canzoni si veicolavano cose carine, si raccontavano emozioni genuine, ci si innamorava. Oggi, invece, con rap e trap ci si droga, sballa, spinella, canna, negando dapprincipio ogni fatto estetico ed estetizzante, costruttivo e istruttivo per i giovanissimi e le masse. Complice anche l’avvento del consumismo, l’istigazione all’ostentazione della ricchezza e dei social media: o meglio, l’uso pessimo che di essi si fa”.

Vale a dire?

“Mio nonno mi raccontava sempre che, una volta, il popolano ignorante e rozzo arricchito d’amblais correva a comprarsi subito il primo cabrio di lusso che trovava in vetrina per sfrecciare rombante a tutto gas come un matto sulle strade del paese, soltanto per mettersi in mostra. Per farsi vedere: ecco, tali sono rapper e trapper. E il popolino scemo dietro, inneggiante. Un conto sono les riches, ben altro i parvenus, gli arricchiti precoci: che, a differenza di chi è realmente signore nel dna, ignorano le regole del bon ton e del sano fair play. Ogni vera ricchezza è pur sempre un fatto di eleganza. Chissà se nomi come Salmo, Achille Lauro, Tormento, Shade, Jack La Furia, Rancore, LowLow, Emis Killa, Raige, Clementino, Nesli, Caparezza, Mondo Marcio, GionnyScandal, Ensi, Rocco Hunt, Moreno, Gué Pequeno, Marracash o Fedez lo sanno…”.

Vedo che non ha citato Sfera Ebbasta, né tantomeno J-Ax.

“Il primo ha fatto bene a ricordarmelo, e la ringrazio per questo: se, come dice il suo stesso nome d’arte, cambiasse mestiere, sarebbe evangelicamente cosa buona e giusta, almeno secondo il modesto, soggettivo parere del sottoscritto. ‘Ebbasta’: appunto, ci crede così tanto da dirselo persino da sé. Nomen omen, ovvero ‘quando il nome è un presagio’, avrebbero esclamato all’epoca gli antichi Romani. Pur non apprezzando il genere, ho stima invece per l’ex Articolo 31: i primi dischi del periodo con Dj Jad erano ancora suonati, gustosi, vivi, con felici incursioni anche nel funky e nell’r’n’b, grazie altresì a collaboratrici di pregio come Paola Folli o Jenny B: due cantanti, strepitose ciascuna, che andrebbero fortemente rivalutate”.

Quindi, qualcosa di buono, a ben vedere, c’è anche qui?

“Guardi, non mi metta in bocca pensieri che non mi appartengono. Non esageriamo. Pianeti dispersi anche i tempi di Neffa, Fabri Fibra, Vincenzo da Via Anfossi, Frankie Hi-Nrg, ATPC, Sottotono e i Gemelli Diversi: lì, almeno, c’era ancora qualche strumento che suonava davvero, un timido barlume di musica, un’idea di arrangiamento, un vago accenno di hip hop. Tra questi metto anche Ghemon: a Sanremo 2019 quantomeno è stato il più furbo, tra i rapper 3.0: ha avuto il buonsenso di presentarsi con una simil-canzone, senza isteriche e stridenti poesie in rima forzata sciroppate su base musicale”.

I tempi cambiano, gli stili degli artisti anche, non trova?

“Una volta il cantante era quasi una divinità, un’entità mistica, una guida spirituale, una figura percettibilmente distante dal pubblico: etereo e impalpabile, elegante e raffinato, inavvicinabile e irraggiungibile, lo potevi solo ascoltare su disco, leggere su giornali e riviste o vedere in tv, sui manifesti lungo le strade o durante un tour, senza intrusione alcuna nella sua vita privata. Pochi idoli, veri, capaci, figli di gavetta dura, ma in grado di restare nel tempo, comunicando valori positivi e spesso anche cristiani grazie a team autorali e di produzione degni di questo nome. Persino i rocker sono più fini di rapper e compagnia ‘cantante’, scritto tra un milione di virgolette. E, soprattutto, dicono e cantano cose e concetti decisamente ben più interessanti. Altro che il turpiloquio attuale”.

E nel quotidiano, invece?

“Cantanti, nell’Italia dei fasti, si nasceva. Oggi, ahinoi, qualsivoglia idiota, con un pc collegato a qualche profilo Facebook, Instagram o Twitter e dotato di un programmino di registrazione, basta che abbia un minimo di seguito ed eccolo potenzialmente trasformarsi in un ‘eroino’ da alta classifica capace di imporre suoni sconnessi, comizi e strepitii in rime stucchevoli e scontate. E il gregge segue, segue, segue…Il resto lo fa la polverizzazione del cd: scomparendo la musica fisica, la discografia ha cominciato a barcollare, a crollare. A farsi il più clamoroso degli autogol possibili. Immaginate un po’ se, di colpo, smaterializzassimo sic et simpliciter anche il pallone da calcio: te la vedi una partita giocata con una Playstation in uno stadio? Esistono dei riferimenti che, in valore assoluto, sono ontologicamente – cioè, per natura – dogmatici. Indiscutibili. Proprio come il compact-disc. Sacro, punto e basta”.

Sembra quasi una posizione preistorica, draconiana: la tecnologia avanza, progredisce, e la gente con le sue abitudini di consumo pure. No?

“Progresso, non sempre, è sinonimo di avanzamento, di miglioramento. Anzi, a guardare quest’epoca, semmai è sempre più vero il contrario. Progresso fa spesso e volentieri rima con implosione, arretramento, pulsionale e inarrestabile ritorno all’inciviltà, all’impoverimento. Alla perdita di un benessere acquisito. Di quello che i Latini solevano chiamare est modus in rebus”.

Un esempio, Scandurra?

“A furia di automatizzare tutto, ci rimettono il posto di lavoro ben 25.000 bancari che rischiano pesantemente di andare a spasso a zonzo prima del tempo, sostituiti da frigidi bancomat parlanti. La medesima, triste fine dei casellanti autostradali. Lo stesso accade per chi produce – o meglio, produceva – dischi: la musica è divenuta schiava dell’informatica, così come della tv”.

Il mondo cambia, e la globalizzazione avanza. Può piacere o meno, ma è così.

“Un dato su tutti: dal 1990 a oggi sono sparite dal mercato i due terzi delle case discografiche ed editrici musicali storiche sorte dal 1930 in poi. L’industria di settore si è paurosamente contratta. E’ diventata anemica, anoressica. Ha perso il controllo di sé stessa per consegnarsi nelle mani avide della massoneria internazionale alla base del crescente, mondiale sviluppo incessante di multimedialità e virtualità, per la gioia di Itunes, Spotify, Apple, Microsoft e altri giganti tiranni del settore. Dal monopolio dei negozi di dischi per la vendita della musica, alla loro digitalizzazione e morte. Perdendo, oltre che lauti incassi, anche una funzione ben più nobile: quella sociale, didascalico-storiografica. I libretti dei cd creavano affezione e curiosità verso l’artista, insegnavano l’amore per i testi, creando negli anni un percorso che, album dopo album, portava il pubblico a capire che le carriere vere sono come la vita: si fanno per gradi. E, se buone, restano altresì nel tempo. Proprio come gli oggetti e i grandi della musica di una volta. Collezionare cd equivaleva ad aggiungere tangibilmente un tassello in più alla propria, individuale maturità”.

E le case discografiche, in tutto questo, come le vede?

“Puri carri di bestiame pronti a saltare a loro volta sul carro del vincitore: ovvio che così, di tragitto, se ne fa ben poco, e per di più si è sempre dal meccanico con le ruote a terra. Come avere due elefanti in una ‘500’, né più, né meno. Un montone seguito da un branco di pecore belanti, per quanto numerose, non sarà mai un buon pastore. Il fatto di avere dei numeri – tutti da vedere e verificare sotto il profilo dell’autenticità, poi – sui social non è sinonimo di artisticità: così come la vittoria a un talent non fa rima con talento o istintiva e istintuale genialità creativa. Per cinque o sei fortunati eletti (Amoroso, Marrone, Ferreri, Mengoni, Irama), realmente usciti da almeno venti edizioni di ‘Amici’ di Maria De Filippi o una decina ‘XFactor’ – ‘The Voice’ non consideriamolo neppure! -, ci sono almeno un centinaio di divi o divetti di quei programmi che fanno la fame. Che vanno dallo psichiatra convinti di essere ancora alle stelle pur vivendo nelle stalle, e altri che non sanno più davvero che pesci pigliare. Qualcuno si salva in corner scrivendo qua e là canzonette per altri, sperando in una hit immortale alla Baglioni o Vasco Rossi: ma è poca roba, davvero”.

Lontani i tempi di Mario Ragni, Vittorio Salvetti, Gianni Ravera, Nanni Ricordi, i discografici che hanno fatto la storia.

“Era glaciale allo stato puro, certamente. Il talento, un tempo, lo si cercava, lo si allenava, lo si testava in estate o primavera fra la gente, in festival e gare nelle piazze prive di trucchi e maneggi strumentali e artefatti all’italiana, prima di passare all’incisione, alla tv, alla popolarità di massa. Lo si coltivava amorevolmente giorno per giorno come si fa in agricoltura: e, alla fine, lo si premiava con un contratto discografico reale, ripagato con carriere e numeri da record. Con durate pari alla pensione conseguita con un qualsiasi, normalissimo impiego. Questi erano i discografici, tali e quali gli artisti da loro scovati, come Bruno Martino, Umberto Bindi, Luigi Tenco. Oppure Roberto Vecchioni, Francesco Guccini, Ivano Fossati e l’altrettanto intenso, seppur meno esposto mediaticamente, Valerio Liboni, al quale dico pubblicamente “Bravo!” per il coraggio di ‘Questa è la mia vita’, il suo ultimo disco. Altro che selezioni sul web, e altre simili cazzate”.

Fatto, oggi, impensabile.

“Ora, il cantante del momento lo creano ex novo in tv o sul web notabilati e potentati più o meno sfacciatamente occulti o in emersione, legati fra loro da contagiose e pericolose cointeressenze: vedi lo strapotere dei manager del live e i loro accoliti nelle redazioni tv, politica inclusa, cricca Sanremo in primis, anno dopo anno. Allora, invece, tutt’altra musica in tutti i sensi: ricavi stellari da milioni veri di lire – mica euro! – e dirigenti capaci, almeno sino a vent’anni fa. Una volta venuti a mancare i quali, restano poche, atomiche briciole inabili a sfamare persino un moscerino. La colpa è del sistema, che implode miserevolmente su sé stesso. Desolazione pura”.

In che senso, Maurizio?

“Parlo da giornalista, ma soprattutto da imprenditore. Possibile che in una qualsivoglia azienda, se un manager sbaglia, viene subito messo alla porta a calci nel sedere? Lei affiderebbe i propri risparmi a un consulente finanziario che ha palesemente e indifendibilmente bruciato denari di altri?”.

No, di certo…

“Mentre nella musica e nella tv, come anche nella politica, in realtà, questi eserciti di silenziosi incapaci trasmigrano allegramente a suon di promozioni per lasciar liberi i posti-crocevia che contano da una poltrona all’altra di questa o quella rete televisiva o emittente radiofonica, di questa o quella realtà discografica, editoriale, produttiva o di booking. Come? semplicemente spostando altrove il proprio indomito e indegno culo per volere del potente-protettore di turno. Seguiti dal loro scellerato know-how experience fatto di disastri e fallimenti. Basta leggere i curricula vitae di chi guida l’attuale discografia, e i numeri africani dei loro fatturati aggregati, per rendersene conto. Se c’è un collega giornalista magistrale maestro nel far rilevare alle platee di lettori il marcio del settore in maniera argomentata e ineccepibile, questo è Michele Monina: una penna che adoro, un professionista che stimo”.

Tutti falliti, per Lei, a quanto pare, i discografici attuali…

“Li rottamerei all’istante quasi tutti insieme, fatte salve rarissime eccezioni, proprio come ha fatto Matteo Renzi con la sinistra e il PD. Personalmente, non ne assumerei uno neanche come garagista. Quanti attualmente, nelle case discografiche, sanno leggere le note o suonare degnamente uno strumento? Quanti provengono da esperienze indiscusse di business management in realtà consolidate e di successo anche multisettoriali diverse? Quanti hanno moltiplicato volumi e ottenuto consistenti premi produzione? Quanti sono laureati in discipline attinenti il settore? Sono queste le domande da porsi. Meglio non pensarci e tacere, mi creda. Se apro bocca, ne finiscono per rischiare di andare a casa una marea”.

E allora, se questo è lo scenario, come venirne fuori?

“Partiamo da un dato certo, di fatto: gli artisti che hanno fatto grande la storia della nostra canzone, letteralmente schifati dall’attuale industria del disco che continua bellamente a fondersi perché, diciamoci la verità, non sta più in piedi, sono quelli che, però, fortunatamente, detengono il mercato del live. Richiesti in piazze, teatri, sagre e fiere estive, sui lungomare come nelle affollate notti bianche di paesi e città. Lo stesso accade in politica: un conto i poltronisti di professione, un conto il voto popolare e i sondaggi: chi governa sono sempre i pochi non scelti dal popolo. Dunque, palazzo e discografia coincidono”.

Come dire: i poteri forti contano, dunque, anche nella musica?

“Certo che sì, eccome! E così vediamo gente come Ivana Spagna, Andrea Mingardi, i Matia Bazar, gli Stadio, Paolo Vallesi, Gatto Panceri, Mariella Nava, Silvia Salemi, Gerardina Trovato, Antonella Ruggiero, Marina Rei, Fiordaliso, Silvia Mezzanotte, i Dirotta su Cuba, Tullio De Piscopo, i Nomadi – tanto per citare gente tutta di livello con carriere e repertori interessanti e tuttora longevi – ricorrere all’autoproduzione, o al supporto di piccole etichette indipendenti fuori dai giochi: sperando di vendere, forse, poco più di ottocento, mille dischi al massimo nei casi migliori”.

E moltissimi altri come loro.

“Non perché di colpo non valgano più nulla, ma semplicemente poichè l’indotto li snobba, senza supportali degnamente con adeguate politiche di investimenti, visibilità e marketing. Un grande cantautore italiano mi confidò in amicizia poco tempi fa che un giorno chiamò al telefono uno storico presidente di una multinazionale discografica per chiedergli un ascolto preventivo del nuovo disco. Si sentì rispondere, frettolosamente e seccamente, con far sgarbato, di lasciar perdere perché era “vecchio”: peccato che quel tale, vent’anni prima, ancora ragazzino inesperto – non che ora sia un genio, permettetemi – fosse stato il suo portaborse in uno dei tanti ‘Festival di Sanremo’ in carriera. Questi sono i discografici di oggi. Professionisti, sì, ma per lo più di cafonaggine, incompetenza e irriconoscenza, per quel che mi riguarda”.

Come spiega allora tutto questo cambio di rotta, caro Scandurra?

“Perché i portaborse delle major, divenuti ‘manager’, ‘A&R’ e altre simili stronzate, oggi amano fare musicalmente i fighi con ragazzini usa-e-getta. Li chiamo, con termine ‘tecnico’, presidenti-ciabattini. Solo che un calzolaio ha ben molta più dignità e pubblica utilità: le suole le ripara, mentre questi azzoppano arte e note affossando il mercato a seri colpi seriali di accetta. Magari fossero presidenti-operai alla stregua di Silvio Berlusconi: allora non saremmo mica qui a parlarne…”.

Ma sono anche gli unici che hanno ancora un pubblico che compra musica.

“Balle clamorose! Se, anziché sui teenagers, la discografia puntasse anche invece sui cosiddetti perennials, alias i 60-70enni cresciuti con i grandi della musica e dotati di ampia capacità di spesa liquida verso cui convergono le dinamiche dei big large account del marketing mondiale, aumenterebbero i volumi e, soprattutto, si moltiplicherebbe l’offerta: oggi, vedere mio zio o mio nonno in un negozio di dischi stupirebbe come avvistare un Ufo alla finestra in pieno giorno. Non perché non amino la musica o camminino male, ma semplicemente, tristemente perché non saprebbero davvero che cosa acquistare! Benji e Fede? Rovazzi? Boomdabash? Thegiornalisti? Dark Polo Gang? Annalisa? Ricky? Thomas? Ma Le pare?”.

Difficile darLe torto, purtroppo: la discografia pare essere ingrata verso chi, un tempo, l’ha resa ricca e potente.

“Proprio così. Mentre perfetti sconosciuti protagonisti di cretinerie radioniche di ogni genere e milioni di like quale l’intera ciurma di sbandati travestiti da rapper e trapper – dico, travestiti, perché il rap e la vera trap d’oltreoceano e oltremanica sono davvero ben altra cosa – vengono corteggiati e firmati in grande stile, come si dice in gergo tecnico: cioè, ingaggiati. Contrattualizzati a botte di ‘gettoni d’oro’ – gli ultimi pochi rimasti – dalle major del disco. Ma, dico, diamo i numeri? Gente che spesso e volentieri non tradisce neanche origini italiane, che quando li intervistano parlano un italiano che non è il mio e il nostro, che ignorano chi siano Mina o Battisti: come la maggior parte, ahimè, dei millenials aridi, sterili e stereotipati tutti chat e telefonino, pronti a seguire il tipetto ‘figo’ di turno che si fa strada a suon di parole a tempo, cappellino, lusso sfrenato anche nel vestiario, muscoli e tatuaggi in mostra”.

Forse perché sono cambiati i punti di riferimento?

“La strada non fa cultura, fa casino. La periferia, il ghetto, uguale. Abbiamo perso ogni orgoglio identitario, ogni campanilismo, anche nelle canzoni. Il vento delle mode straniere divide et impera indefesso ora più che mai. C’è in atto un grave rischio di sostituzione etnica che bene, di certo, non fa alla nostra canzone italiana: Giorgia Meloni e il professor Alessandro Meluzzi, sociologo e studioso d’alto rango, lo ripetono a gran voce da anni in tv, additando ciò come uno dei mali e delle derive peggiori dell’Italia contemporanea. Un tempo, ‘fenomeni’ come Mahmood e Ghali non sarebbero stati neanche lontanamente pensabili. Siamo affetti da un’inguaribile esterofilia: quel che viene da fuori è sempre meglio. Ci vorrebbe un Matteo Salvini anche nella musica: lo dico apertamente”.

Il rap e i suoi derivati, proprio non le vanno giù. Si vede, e si sente.

“Per nulla. La canzone, un tempo, aveva un ruolo paideutico, formativo, pedagogico. Idem la tv. Oggi, invece, trash a tutto spiano. Quando la bellezza e il buongoverno cadono e decadono, calpestate e mercificate sotto i piedi del popolo, si perde tutto. Un tempo c’erano pochi cantanti ognuno dalla voce unica, esponenti di una pluralità di generi musicali per lo più da noi scomparsi come il blues, funky, acid-jazz, soul, rock’n’roll, cantautorato, pop melodico e partenopeo, canzone dialettale. Andrea Mingardi lo va dicendo a buon diritto da una vita”.

Sì, ma le cose evolvono: c’è posto per il vecchio e il nuovo, non crede, Maurizio?

“Siamo artisticamente passati, tanto per restare in metafora, da poche camicie di seta di fattura artigianale che anche dopo 30 anni sono perfette, intonse, al discount diffuso dell’abbigliamento in perfetto stile sartoria cinese”.

Sta forse dicendo che gli artisti contemporanei non valgono nulla?

“Stiamo parlando del nulla, mi creda. Dico davvero. Ma li ha visti gli artistucoli di oggi? Tutti eguali per voce, stile e canzoni, pura produzione seriale anonima fatta con lo stampino. Al posto di frasi memorabili al pari di Dante o Ariosto così come hanno fatto Franco Battiato – un marziano di sapienza lontano anni luce dal nostro mondo -, e con lui anche Lucio Dalla, Enzo Jannacci, Pino Mango, Pino Daniele, Giorgio Gaber, oggi resta solo un maleodorante diluvio incessante di parolacce, bestemmie anche indirette, istigazioni e stimoli continui al sesso, sballo, trasgressione e inciviltà. Parafrasando al contrario il sommo poeta Fabrizio De Andrè, “dai fiori è nato il letame”, di cui rapper e trapper sono esponenti unici, imbattibili e incontrastati: testimonial perfetti per aziende di concimi per terreni”.

Insomma, non risparmia davvero nessuno.

“A proposito dell’insuperato maestro genovese, autore di perle memorabili come ‘La canzone dell’amore perduto’, ma è mai possibile che egli sia stato, in maniera molto astuta, oggetto di una qualsivoglia “usurpazione” di nome d’arte, da parte di un certamente ben più ignoto e sconosciuto ‘The Andrè’, giocando sull’assonanza di pronuncia da parte di quest’ultimo, e “dribblando” un marchio patronomico? Ma manco fosse una bibita da bere! Mi sembra anche abbia dichiarato pubblicamente di autodefinirsi una sorta di cantautore che reinterpreta la trap. Assurdo! I cantautori, quelli con la ‘C’ maiuscola, sognavano invece un’Italia migliore fatta di sacrifici, ambizioni e speranze da raggiungere onestamente, col tempo e nel tempo”.

E i rapper, invece, no?

“Inutili e squallidi, stravaganti ‘cantattori’, l’hanno trasformata in un cesso senza fondo ove il concetto dell’uomo-dio che tutto può, dell’odio, della sfida nascosta sotto il termine ‘dissing’, il successo e il soldo facile, l’ostentazione della ricchezza, la scopata volante, hanno surclassato i valori che contano davvero: come educazione, fedeltà, verginità, matrimonio, casa di proprietà, figli, famiglia, lavoro, studio, vita morigerata e dignitosa. Questo non è bigottismo, se è lì che vuole arrivare, no. E’ essere uomini decorosi, persone perbene, serie, oneste e garbate. Ricche soprattutto di sostanza, non di fantasmatica e vacua apparenza”.

Dunque, secondo Lei, a chi appartiene la colpa più grave?

“Alle famiglie, senza dubbio. A quelle generazioni di 35-40-50enni – i più, ma non tutti, per fortuna – che hanno completamente dimenticato e rigettato, senza tramandarli debitamente ai loro figli, quei valori che hanno reso grande nella storia, e in particolar modo dal Dopoguerra a oggi, l’Italia: cultura, fede, amore per il bello, lavoro, rispetto per le istituzioni e utilizzo costruttivo del tempo libero e del denaro. Agli oratori salesiani fondati da San Giovanni Bosco in cui sono cresciuti i nostri padri e al posto delle partitelle di calcio al campetto sotto casa, le coppie di padri e madri – almeno, finchè resistono, eterosessualmente composte – preferiscono display a cristalli liquidi da dare in mano a ragazzini smanettoni. Ci manca solo il dilagare dell’identità di gender, e la frittata è fatta”.

Su questo, non posso darLe torto: siamo tutti un po’ vittime di un abbrutimento generalizzato e diffuso della società…

“Nei Sanremo dell’era Pippo Baudo – si badi bene, il vate profetico, il visionario competente, illuminato e imbattuto che ha scoperto i talenti più longevi e prolifici della musica italiana alla base tutt’ora dei fatturati che salvano i bilanci risicati e risibili dell’industria italiana del disco, come Giorgia, Eros Ramazzotti, Andrea Bocelli, Zucchero, Nek, Laura Pausini -, tutti quei valori erano la norma. La base di partenza per la costruzione di un corretto fatto artistico di successo”.

Del resto, sappiamo che lo stima pubblicamente moltissimo.

“Sono anni che, insieme all’amico giornalista e critico musicale Lele Boccardo, Direttore del magazine di cultura e costume ZetaTielle.com, instancabile collega di tante durissime e giuste battaglie condivise strenuamente in difesa della Musica con la ‘M’ maiuscola, ci battiamo a suon di stampa per il ritorno principesco dell’immenso conduttore, siciliano come me, all’Ariston. Ma la Rai, su tal versante, è sorda, nonostante i cambi di Cda e di colore politico. Baudo passa in subordine rispetto alle trame dei manager, ai loro rapporti con le direzioni di rete”.

Quale soluzione, allora?

“Dice bene Carlo Marrale, uno che in fatto di canzoni se ne intende davvero, avendo fondato i Matia Bazar e sfornato le maggiori hit internazionali del gruppo, ‘Vacanze Romane’ su tutti, in coppia con il compianto Giancarlo Golzi: quando – come ha fatto in una recente intervista al quotidiano ‘La Voce di Mantova’ che, se ben ricordo, mi pare abbia ripreso proprio un lettissimo articolo di ‘Ondamusicale’ (leggi l’articolo) di fine agosto 2016 –  afferma che i genitori di oggi farebbero molto più bene ai propri figli se, al posto di smartphone e tablet, regalassero loro degli strumenti musicali. Giorgio Gaber, agli albori del Duemila, dichiarò persino già all’epoca che la sua generazione ha perso: e quelle di oggi, allora? Non pervenute. Neanche lontanamente. Per dirla con il grande Renato, zerofollia allo stato puro. Confido vivamente nei posteri”.

Secondo Lei, è vero che la ruota gira, anche nella musica?

“Speriamo presto. Il mio non è uno sfogo alla Paolo Limiti, bensì uno spunto concreto e personale per l’inizio di un dialogo teso a restituire nuova dignità, e altrettanto slancio, alla canzone italiana. In attesa di chi voglia rispondermi per confrontarsi costruttivamente con lo stesso spirito. Nel mentre, mi affido fiducioso alla Divina Provvidenza: quella “che fa sempre bene tutte le cose”, come insegna San Giuseppe Benedetto Cottolengo! Buona vita a tutti”.

— Onda Musicale

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