Musica

Roberto Vecchioni a Roma, il suo “Infinito” è un manifesto di rinnovato umanesimo

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Qualche anno fa cantava: “Io sono un uomo… e tu non sei un cazzo di niente” e basterebbero queste parole, da anteporre a qualunque recensione o riflessione in merito, a raccontare quello che è Roberto Vecchioni oggi. 

“Quello che è”, in quanto è proprio nell’essere, l’esistere e il resistere, che risiede la dichiarazione d’intenti affermata con forza dal cantautore milanese nel corso delle circa 3 ore (3 ORE!!!) di concerto, tenutesi l’11 dicembre scorso presso il teatro Brancaccio di Roma.

Essere in un mondo di incertezze, un mondo in cui la comunicazione stessa – quindi il mettere in comune, qualunque sia il fine – sembra offuscata dal caos delle menzogne, delle luci, delle icone (che come dirà lo stesso Vecchioni si sostituiscono spesso alle parole) e che proprio una canzone come “Una notte, un viaggiatore” riesce perfettamente a comunicare. Come nell’esordio del quasi omonimo romanzo del 1979 di Calvino, Vecchioni si presenta così: cavaliere errante di nessuna solitaria guerra ma viandante disorientato che potrebbe essere tutto o nulla, porta una valigia in mano del quale non si conosce l’utilità e ha in tasca un foglio di parole, anch’esse vaghe ed incerte – versi o la nota del droghiere? –, nel corso di un un viaggio della cui meta è ignoto. Calvino sembrava chiedersi che senso avesse la parola in quanto simbolo ingannevole, con una riflessione in cui la forma romanzo stessa veniva messa in discussione, e così fa Vecchioni, il professore che pur non sapendo dare risposte, forse annebbiato dai treni che partono, il tempo e l’età, ha un'unica certezza: quella di “essere un uomo”. E il concetto sarà ribadito costantemente per tutta la prima metà dello spettacolo, incentrata principalmente sul nuovo album, quel “L’infinito” che proprio a questo tour ha dato il nome.

Essere uomini, prevaricando il dolore, la memoria fallace, la stessa morte – “che cosa aspetta ad arrivare dio? / Che siamo in fila come statuette / Per sta’ menata dell’addio”, canta in “Com’è lunga la notte” – sembrano poter ca­­ncellare. Ed è proprio nel lungo elenco di vite, sagome e nomi cui allude Vecchioni nelle canzoni, così come nei piacevolissimi excursus tra un pezzo e l’altro, che si annida quest’unica certezza. La velata menzione a Liliana Segre, simbolo inossidabile di resistenza, la canzone che attraversa i secoli come portatrice di vita e amore, le madri, in particolare quelle che hanno subìto la ferita lacerante della perdita di un figlio. E proprio alle madri, da Andromaca a Celia de la Serna, si allude prima della bellissima e toccante “Giulio”. Vecchioni fa un passo indietro, non vuole appropriarsi del dolore altrui, dolore irriducibile che non potrebbe capire, ma lo racconta, lo getta lì e poi lo lascia svanire nella musica.

Lui, professore nella vita e come nell’arte, è bravo a tessere una rete incrociata di spazi e tempi in cui figure di ogni tipo – personaggi storici o recenti, così come miti letterari – diventano exempla mirabili posti tutti sulla medesima bilancia. Dall’Alex Zanardi di “Ti insegnerò a volare” (con la quale, dice, ha voluto ribaltare l’idea di una natura matrigna e fatale espressa in “Samarcanda”) fino alla giovane combattente Raqqa Ayse Deniz Karacagil ricordata in “Cappuccio Rosso” (altro picco della serata, con gli applausi a testimoniare); dal conquistadores Diego Velázquez de Cuéllar – e alla soglia degli ottanta quanto appaiono ironici quei versi “Ahi Velasquez, non ti avessi mai seguito /Con te non si torna una volta sola indietro” –  fino a Giacomo Leopardi.

E se non bastasse il titolo “L’infinito” a richiamare qui e lì la poetica del genio di Recanati, è nelle parole di un emozionante monologo, in cui Vecchioni veste i panni di Antonio Ranieri – il “Totonno” della canzone – amico e mecenate dell’ultimo Giacomo, che il cantautore ne introduce il ritratto. Ben distante dalla stantia forma in cui si è soliti irrigidirlo nei licei, dice: “Leopardi non era per nulla stanco della vita, anzi… era solo stanco del dolore”, di nuovo quel “un cazzo di niente” di cui sopra che è nulla di fronte all’uomo. E così, partendo dall’idea prima della “Ginestra”, con il tramonto della luna che lascia spazio al nuovo sole, nella title track, “L’infinito”, Vecchioni pone davanti al microfono propri Leopardi.

È un Leopardi vitale e vitalista che con un po’ di ironia riesce a trovare nella saggezza popolare napoletana – “Io te voglio bene assaj e tu non piens’ a me” – la summa del suo “Zibaldone di pensieri”. Un idillio ricco di dolcezza e amore per le piccole cose – il vociare dei bambini, il verso dei grilli, il profumo dei fiori e Capri che appare “come Nausica al bagno” – un senso del tutto in cui: “L’’infinito non è al di là, è al di qua della siepe”, dove c’è appunto Giacomo, di nuovo l’uomo che deve: “amare la vita e la vita che non ti ama e non ti vuole”.

E questo nuovo umanesimo – o il vecchio, che dir si voglia – viene affermato nuovamente da un monologo che spiega le remote motivazioni alle spalle della scrittura di “Vai ragazzo”: ovvero dare una risposta al perché degli studi umanistici e dei classici. Vecchioni invita a soffermarsi più spesso sul passato, la storia e i miti con tutti i loro tipi ricorrenti di umanità- “è già tutto lì”, dice – anche a costo di andare contro al sentire comune e il pregiudizio. “Camminare sopra la bellezza / Senza sentirla viva nella sua grandezza / Corrono, ragazzo, tutti invano / Tu rallenta il passo e guarda piano”.

E proprio questo pezzo è uno di quelli maggiormente riadattati alle esigenze spettacolo, mancano le coriste, la batteria qui tace, tutto viene scandito dalla chitarra di un eccellente Massimo Germini, sempre brillante su ogni traccia. Il resto della band conta nomi pregevolissimi, al basso Antonio Petruzzelli, elegante e puntuale, soprattutto con il basso acustico; alla batteria Roberto Gualdi – in questi stessi giorni impegnato in tour anche con la PFM – mentre il resto degli strumenti – chitarre elettriche, mandolino, sintetizzatori, tastiere e, ovviamente, il violino – passa per le sapienti mani di Lucio Fabbri, a tratti irreale per la sua bravura e versatilità. Gli arrangiamenti, anche quelli maggiormente semplificati rispetto alle versioni in studio, sono sempre credibili e la formazione a cinque riesce a trasmettere con uguale efficacia il senso di intimità di alcune tracce, così come tutta la carica delle canzoni dal ritmo più incalzante. La voce di vecchioni, non cala mai, se non verso la fine, su “Chiamami ancora amore”, che diventa quasi sussurrata ed ugualmente emozionante.

La serata, tra riflessioni, tante emozioni e un suono sempre all’altezza, regala diversi momenti di ilarità, dai dialoghi tra Vecchioni con il pubblico romano, fino al racconto di aneddoti che, da buon professore, riescono a condurre l’ascoltatore verso questa o quella disposizione d’animo prima di ciascuna canzone. Come quando, dopo la meravigliosa e drammatica “La viola d’inverno” – forse l’interpretazione migliore della serata – ci si asciuga le lacrime sentendosi raccontare di un fantasioso e divertente scontro tra Francesco Guccini e Ludwig van Beethoven prima di “El bandolero stanco”. Il cantautore milanese ci narra le sue storie, il suo mondo di esempi ideali, la sua razza, affermando tra il serio e faceto di essere un raro superstite di Homus sinistrensis, prima di cantare qualche verso della canzone con cui lui è solito cercare di ricongiungersi ai suoi pari, “Bella ciao”.

È uno spettacolo ben rodato e funziona in ogni suo momento, anche il ritmo imposto alla scaletta è ottimale, tanto per il primo atto – in cui l’ordine di “L’infinito” viene ristabilito in base al “flusso di emozioni” che si vuole suscitare – quanto per il secondo, in cui si alternano pezzi meno noti e più intimisti come la bellissima “Ninni”, passando per “Le mie ragazze” – in cui i semplici visual proiettati sullo schermo contribuiscono al racconto, del ieri come dell’oggi – fino alla celebre e sempre efficace “Sogna ragazzo sogna”, che sembra una sorta di reprise di quanto già cantato in “Vai ragazzo” nella prima parte.

Lo spettacolo si conclude con il consueto bis in cui, dopo la “solita” – e solitamente emozionante – “Luci a San Siro”, sui colpi di grancassa e il violino di “Samarcanda” si spengono le luci. E chissà se quel soldato su quel cavallo al trotto non sia proprio Vecchioni, che proprio la morte, il dolore e i dubbi della vita ha saputo ben raccontare nel corso di una carriera come di questo spettacolo. Mai negando tutto ciò, ma affrontandolo, come un intellettuale di quella razza lì deve. Perché in fondo Samarcanda non è mai lontana, il sole lascia spazio sempre alla luna, e perché “Non è in cielo l’infinito / L’infinito è nella tua emozione”, e cosa più umano di un’emozione?

 

Matteo Palombi – Onda Musicale

 

p.s. Noi non avevamo freddo

— Onda Musicale

Tags: Lucio Fabbri/PFM/Roberto Vecchioni/Francesco Guccini/Teatro/Matteo Palombi
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