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Redattore per un giorno: “Yeti” degli Amon Düül II

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Nel mare magnum dei dischi che in questo bisesto e già quanto mai funesto 2020 compiono mezzo secolo, non può mancare “Yeti” dei tedeschi Amon Düül II.

Un intimidente monolite che sembra aver viaggiato dalla California dell'acid-rock attraverso tutti gli Stati Uniti e la Gran Bretagna per poi atterrare a Monaco e divenire un'irrinunciabile reliquia nell'aprile del 1970.

Ma andiamo con ordine e scopriamo le basi del mito Amon Düül II, gruppo numeroso e sempre in costante mutamento, tuttavia costituito sin dall'inizio dallo zoccolo duro dei due chitarristi e cantanti John Weinzierl e Chris Karrer (quest'ultimo anche violinista e polistrumentista), il tastierista Falk Rogner, la spiritata voce femminile di Renate Knaup e l'imponente batteria di Peter Leopold.

Sono di Monaco di Baviera e fanno tutti parte, sul finire degli anni Sessanta, di una comune hippie dalle ambizioni artistiche e culturali dal nome Amon Düül, ma quando decidono di intraprendere la carriera professionale come rock band si scontrano con altri musicisti membri della comune, che concepiscono l'arte delle sette note come qualcosa di più estemporaneo e amatoriale. Siccome nessuna delle due fazioni sembra voler rinunciare alla ragione sociale “Amon Düül”, i Nostri vi aggiungono “2” e vanno poi per la loro strada.

Nel 1969 esordiscono con un disco dal titolo più dissacrante che mai, “Phallus Dei”, inciso per l'etichetta americana Liberty: molto più che una semplice promessa e già indicativo del loro inquietante stile, in Germania prestano un orecchio attento. Ma il capolavoro assoluto arriva l'anno successivo ed è per l'appunto questo monumentale doppio, che si annuncia intrigante già dalla copertina: un gioco di contrasti tra colori caldi e freddi, appena sfumati tra di loro, su cui si staglia la luciferina figura di un uomo in tunica intento a sferrare un colpo di falce (costui altri non è che il fonico della band Wolfgang Krischke, morto nel 1969 per ipotermia in seguito ad una fuga sotto l'effetto dell'LSD nei gelidi meandri della Foresta Nera).

In tanti, a posteriori, parlano dei bavaresi come dei pionieri del krautrock, ma a chi scrive sembra più che altro una definizione di comodo data per ragioni geografiche: non sono, gli Amon Dȕȕl II, particolarmente o affatto propensi a ritmi motorik e avanguardie elettroniche pre-techno come i loro connazionali e contemporanei Can, Neu!, Kraftwerk.

Del resto per “Yeti” vengono impiegate molteplici definizioni, tutte calzanti eppure nessuna di esse particolarmente esaustiva: acid-rock, psichedelia, progressive, hard rock, folk… E' tutto questo assieme, ma in una dimensione tutta sua, dotato com'è di una sensibilità tutta teutonica, da un'inclinazione del tutto (mittel)europea al gotico e all'orroroso. Che trasforma le suggestioni lisergiche della psichedelia californiana in colonna sonora di bad trip, come nella minacciosa danza gitana strumentale Cerberus, partenza acustica e tribale per poi essere scorticata da ustionanti chitarre distorte e vortici di batteria effettati.

Che epura l'hard rock dalle sue radici blues e lo trasforma in musica “fredda”, per la mente, in una Archangel Thunderbird, forte di un riff marmoreo proto-metal e di una Renate Knaup magistralmente licantropa, in anticipo di circa un ventennio su tanto hard'n'heavy alternativo, dai Jane's Addiction ai Tool passando per i Soundgarden. Che, quando invece è blues (Eye-Shaking King), rallenta il passo, distorce le voci, oltre agli strumenti, e sortisce altre atmosfere da incubo, prefigurando questa volta doom e stoner.

Che rende il progressive, più che uno stile, un concetto di musica che “progredisce”, come nella opener Soap Shop Rock, suite in più movimenti in cui il riff al fulmicotone e la furiosa denuncia sociale alla MC5 iniziali si trasfigurano ora in deliri titanici, ora in parodia zappiana, ora in lugubre esotismo. E questo è solo il primo disco. Nel secondo, completamente improvvisato, il lungo dittico Yogi/Yogi Talks to Yeti dapprima omaggia apertamente i Pink Floyd di Ummagumma, poi si espande verso altri visionari orizzonti e colloca il gruppo tra i principali alfieri dello space-rock (ecco forse la definizione più calzante) assieme agli inglesi Hawkwind; mentre la conclusiva Sandoz in the Rain, druidico folk che rende onore alla scozzese Incredible String Band, ospita alla voce Rainer Bauer e al basso Ulrich Leopold, fratello di Peter, degli “altri” Amon Düül e sancisce la pace tra le due frange.

Ribadisco: è un capolavoro. Un magmatico fluire di spunti ed ispirazioni di una band in stato di grazia e al contempo un'angosciante rappresentazione degli stati d'animo della gioventù sessantottina tedesca, arrabbiata come mai e intenta a chiedere conto alle generazioni precedenti degli errori storici di una nazione, protratti oltre la guerra con il negazionismo e altre imperdonabili ipocrisie propugnate innanzitutto dalle istituzioni.

Varrà alla band un seguito molto rispettabile non solo in patria, ma anche in Inghilterra e, dal momento che molto ha assorbito dalla musica anglosassone, avrà dal canto suo il merito di restituire il favore e di influenzare già da subito più di qualcuno in terra d'Albione. Livelli a cui purtroppo la band, pur raggiungendo ancora ottimi risultati per qualche anno, non saprà più ripetersi.

 

  Edy Bsu

— Onda Musicale

Tags: Kraftwerk/Pink Floyd
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