Musica

Marillion: neo progressive rock senza tempo

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E' il 1983, siamo in pieno fenomeno pop-rock: tra le pubblicazioni dell’anno figurano Spandau BalletTears for FearsJourney e così via. Nulla da togliere agli album di queste band che hanno segnato la storia, ma andiamo, noi vogliamo qualcosa di più. O mi sbaglio?

Non vogliamo forse qualcuno che sia in grado di scuotere le nostre coscienze, di farci alzare dalla sedia e di farci chiedere come abbiamo fatto a vivere (musicalmente parlando ovviamente) senza avere quel CD nella nostra libreria? Oh sì che lo vogliamo! E allora ecco per noi "Script for a Jester’s Tear", primo album completo della band neo-progressive britannica dei Marillion.

Eccolo lì, cavaliere in armatura che ci riporta le sonorità che tanto amiamo, nate negli anni ’70, e che per un momento avevamo visto affogare nel mare della musica dance. Fish, frontman e cantante della band dei primi quattro album della band sembra un Peter Gabriel in ritardo di dieci anni: truccato da pesce (ci mancherebbe), espressivo come solo pochi sono in grado e con un’energia che sembra non finire mai. Lo vediamo impersonificarsi nelle canzoni che interpreta come prima di lui aveva fatto solo il suo modello genesisiano. Che meraviglia: questa non è più solo musica, è teatro. Teatro e letteratura, in quanto ogni testo è un piccolo romanzo.

Si comincia con la title-track Script for a Jester’s Tear, capolavoro prog di gran classe combinato con gusto sopraffino a sonorità e lyrics vagamente inquietanti, come del resto è caratteristica dell’intero CD, a cominciare dalla copertina che ritrae un disperato menestrello (jester) che impugna violino e penna in quello che appare come l’ennesimo tentativo di scrivere qualcosa.

Che sia tutta un’allegoria? Una metafora? Chissà… fatto sta che questa ambiguità continua nella canzone seguente He Knows You Know, in cui Fish fa uso della sua potenza espressiva per denunciare l’abuso di droghe (fate particolare caso al finale: non è forse recitazione quella? Probabilmente ispirata, azzardo, da un interessato ascolto dei Pink Floyd).

Le parole si potrebbero sprecare, come sempre, anche su tutte le altre canzoni del disco (The Web, Garden Party e ChelseaMonday) ma vorrei lasciarvi il piacere di scoprirle e puntare il dito su quello che a mio parere è la perla più splendente dell’album: Forgotten Sons. Credetemi, una volta ascoltata non ve ne libererete più.

Un testo graffiante in protesta alla guerra anglo-irlandese, una melodia indimenticabilmente progressive e un coinvolgimento emotivo che ha pochi eguali: i Marillion danno il meglio di sé, mettendo in piedi una canzone che scuote chi la ascolta con un minimo di sensibilità, che rievoca i suoni della battaglia e lo stato di terrore in cui hanno gli irlandesi.

E riecco il teatro, che ci fa vivere per otto minuti spalla a spalla con quei figli dimenticati che abitano un Paese lacerato dalla guerra grazie alla incredibile interpretazione vocale e strumentale. Se poi avete il tempo di guardare la versione live di questa meraviglia, salutate ogni dubbio residuo! Attenzione: questa canzone non è Sunday Bloody Sunday, questo è un attacco diretto a chi sta in alto, a chi queste guerre le vuole e a chi non fa nulla per fermarle. Questa è musica che arriva al cuore, musica che vuole lasciare un segno dentro a chi la ascolta: non fatevela scivolare addosso.

Stay prog!

Elena Molinari

— Onda Musicale

Tags: Pink Floyd/Spandau Ballet/Tears for Fears
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