Musica

Un po’ di luce sul mistero di “John Latham”, uno degli inediti più attesi del box dei Floyd “The Early Years”

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Traduzione di un articolo del musicologo David Toop apparso ieri 3 novembre sulla versione on line di Wire, rivista inglese di musica underground.

Eccone la traduzione: "C'è un brano di Little Richard dagli intenti, se non dalle proporzioni bibliche – "He Got What He Wanted (But Lost What He Had)" – che potrebbe offrire un'utile istruzione morale a chi fosse aperto al suo precauzionale messaggio. Mi è venuto in mente subito dopo aver avuto accesso, dopo molti anni di tentativi, al/i leggendario/i brano/i dei Pink Floyd (singolare o plurale, vedremo più tardi) dal titolo “John Latham”. Dico leggendario ma in verità, nella narrativa rock, rimane un mero scrigno di segreti; le sessions di John Latham rimangono sul fondo di quello scrigno, ma oltre ai fanatici dei Floyd e agli accoliti di Latham (mi metto tra i secondi, non tra i primi) poche persone sane conoscono o si occupano del fatto che un leviatano del rock una volta registrò musica per un film realizzato da uno degli artisti più provocatori e problematici del sec. XX."

"Dunque, un po' mi ha incuriosito questo brano. La curiosità mi venne durante una conversazione con il figlio maggiore di Latham, Noa, fatta nel 2005. Secondo Noa, un film dal titolo Speak fatto dal padre all'inizio degli anni '60 aveva attirato le colonne sonore dei Pink Floyd, del pioniere della free improvisation Joe Harriott e del danzatore e compositore di elettronica Ernest Berk. Furono tutte rifiutate dall'artista come 'non accettabili'; di conseguenza, registrò in proprio una traccia rumoristica con una sega circolare, furiosamente pulsante, che si conciliava perfettamente con l'allucinatoria successione di forme geometriche colorate che riempiono le immagini."

"Una proiezione notturna di Speak durante un sit-in all'Hornsey College of Art nel 1968 rimane un ricordo vivo, così come l'incontro dal vivo con gli AMM nel 1966 ad un concerto dei Cream alla Roundhouse, varie performance dei Pink Floyd nel periodo con Syd Barrett e qualche eccitazione ad ampio raggio in occasione del Destruction In Art Symposium, che si tenne a Londra a settembre 1966. Durante il Destruction In Art Symposium (DIAS), tre delle Skoob Towers di Latham (colonne di libri d'arte scartati, in questo caso) furono bruciate vicino all'ingresso del British Museum. Vigili del Fuoco e polizia poterono fare poco nella circostanza. Quella convergenza di psichedelia, libere improvvisazioni ed esplosioni determinò una fusione nella mia testa. Il risultato fu una mostra dal titolo Blow Up, curata nel 2010 da me insieme con l'editore di Wire Tony Herrington alla Flat Time House, una volta casa di John Latham, poi chiusa quest'estate dopo otto anni come spazio pubblico di arte."

"Sarebbe stato bello se la musica dei Pink Floyd per Speak fosse stata disponibile per la nostra mostra, ma il management dei Pink Floyd e l'archivista e batterista ne negavano strenuamente l'esistenza. "Semplicemente non ricordo per niente questo progetto" mi scrisse all'epoca Nick Mason, "Sono sicuro che non ci sono nastri impolverati da qualche parte – qualcuno li avrebbe già bootlegati." Ma, come Rob Chapman ebbe modo di scoprire in occasione delle ricerche per il libro biografico su Syd Barrett, Speak fu proiettato durante le esibizioni dei Pink Floyd all'UFO, alla London Free School e al Commonwealth Institute. Il crescente interesse di Barrett per gli AMM e per Latham, nonché l'amore del tastierista Richard Wright per Miles Davis e John Coltrane, gettarono delle ombre sulle aspirazioni della band di essere quella che Nick Mason chiamava una "band da hit parade". Secondo Barry Miles nel suo libro Pink Floyd: The Early Years, Barrett amava combinare l'acido con l'album Om di John Coltrane, comportamento non favorevole alla mentalità da hit parade."

"Poi all'improvviso, come se l'anno 2016 fosse propizio, quegli inesistenti nastri si materializzano come parte di un ricco e costosissimo cofanetto di 27 dischi: The Early Years 1965–1972. La favoleggiata registrazione del 1967, “John Latham”, misteriosamente divisa in nove tracce, nonostante fosse un brano unico lungo poco oltre 30 minuti, appare sul secondo dei CD".

"Messo in streaming on line il Santo Graal, la mia reazione è stata quella di prestare un rapido ascolto. Mi son detto: "ok, eccolo" e sono ritornato a fare quel che stavo facendo prima. In parte, è stato un segno di frustrazione. Sarebbe stato di grande aiuto avere le tracce per Blow Up oppure mentre scrivevo il mio recente libro sull'improvvisazione libera dal titolo Into the Maelstrom. Perché tenerle nascoste? Dubito molto che la spinta a spendere 378,38 sterline possa scaturire da 30 minuti di improvvisazione libera di una band non preparata per suonarla. Ma come cantava una volta Little Richard, "you get what you wanted and lose what you had" (ottieni quel che volevi, perdi quel che avevi), in questo caso l'enorme bizzarria e il mistero di immaginare una band monotona come i Pink Floyd che prova a fare i finti AMM per un film di un artista che una volta ha fatto saltare libri in aria."

"Un'ulteriore riflessione sul brano: questa autentica rarità è un'illustrazione del perché la libera improvvisazione sia difficile; occorrono esperienza, prove, tecnica, un obiettivo. Richard Wright si rivela una promessa non mantenuta (in futuro sarebbe riuscito ad evitare di fare concerti per dieci persone e a co-produrre il giornale Musics); Barrett è abrasivamente incastrato tra riff vari e un ondivago bottleneck; Mason è chiaramente a corto di idee e cerca rifugio in qualsiasi ripetizione trovi per strada, solitamente trovandola nel basso cliccante di Roger Waters. Tutto molto affascinante, un mistero risolto ma sul serio, per noi tutti sarebbe stato meglio ascoltare il primo album degli AMM."

 

traduzione di Carlo Maucioni

 

 

 

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— Onda Musicale

Tags: Roger Waters/Richard Wright/Nick Mason/Syd Barrett/Little Richard/Pink Floyd
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