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Chitarre rock: lo stile di Keith Richards

Con questo articolo si inizia una nuova rubrica che vedrà come protagonisti alcuni dei più importanti chitarristi della storia del rock.

Ogni due settimane sulle pagine di Onda Musicale troverete delle analisi sulle principali caratteristiche dei grandi interpreti delle sei corde, con l’intento di sottolinearne le peculiarità, la natura dei suoni e le rivoluzioni che hanno apportato, in modo permanente, al modo di fare musica degli ultimi cinquanta (e oltre) anni.

Parlando di chitarra rock, di rivoluzione, di spirito sovversivo e innovazione, non si può non citare un uomo che emana rock già solo dal nome: Mr Keith Richards. Il leggendario chitarrista che ha spento (stavolta senza fumarle) le 75 candeline qualche giorno fa, è noto alle cronache per aver militato e fondato i  Rolling Stones, oltre che per un elenco lunghissimo di aneddoti e storie – più o meno veritiere (o meglio, talmente assurde da sfociare nell’agiografia di un essere mitologico) – e modi di essere che hanno caratterizzato l’immaginario del chitarrista rock per eccellenza.

Con la sua presenza iconica sul palco, il petto nudo e villoso, sempre ai limiti della decenza, con quella chitarra portata così in basso da richiedere strane pose per essere suonata, Richards ha costruito – forse in modo del tutto casuale – l’idea del rocker bad boy e provocatore, del chitarrista dannato che passa le sue giornate con accanto una chitarra, un bel pacchetto di Marlboro e una o più bottiglie di Jack Daniel’s. Dagli abusi di ogni tipo di sostanza, fino ai diversi arresti, da una morte che ha fatto risuonare più volte la sua mannaia a meno di un centimetro da lui e i compagni Stones, Richards è riuscito a sopravvivere grazie alla sua musica, la sua band, e la sua fidata sei corde, che poi di corde ne ha cinque…

Cinque corde non a caso, come recita il suo mantra diventato anch’esso leggendario, sintesi del suo sound e modo di essere: cinque corde, due dita e uno stronzo. E sarebbe sufficiente questa frase per riassumere l’immensa portata rivoluzionaria del sound dei Rolling Stones e degli infiniti riff tirati fuori a suon di pinte. Ma basta alludere agli aneddoti, perché ce ne sarebbero tantissimi – a partire da tutte le volte che il buon Keef ha sfiorato la morte, fino alle liti furibonde finite nel peggiore dei modi, dalle minacce con tanto di coltello a Donald Trump, fino alla miracolosa rinascita dopo essere caduto da un albero di cocco – e perché sono stati ben raccontati dallo stesso Richards nella sua autobiografia (Life, edita da Feltrinelli in Italia). Piuttosto cerchiamo di cogliere l’essenza stessa della sua innovazione musicale e la sua lunga evoluzione nel corso tempo.

Se non fosse sufficiente ascoltare le primissime incisioni con gli Stones, molte delle quali sono proprio cover di grandi classici, si dovrà ricordare come nella chitarra di Richards si incrocino tutti i grandi padri del rock-blues: da Bo Diddley a Elvis, da Robert Johnson a Howlin Wolf, da Muddy Waters fino a Chuck Berry, suo vero e proprio padre spirituale. Nei dischi degli esordi con Jagger e soci, tali influenze sono particolarmente evidenti (soprattutto in canzoni come Carolo I Just Want to Make Love to You o anche It’s all Over Now) molto più di quanto non lo siano oggi ascoltando i pezzi più conosciuti dei Rolling Stones. Richards non ha mai nascosto tale eredità, anzi, non ha mai perso occasione per riconoscere l’enorme vantaggio di aver divorato centinaia di dischi provenienti dalle Americhe, su tutti, come già detto, quelli di Chuck Berry: “quando ero ancora un chitarrista rock in erba, la sua musica mi ha sparato nella stratosfera”.

L’aspetto più evidente mutuato dal creatore di Johny B. Goode è la particolare tecnica di fraseggio a due corde anziché una, che Berry aveva a sua volta preso da T-Bone Walker, che ha conferito quel suono grosso e massiccio alla maggior parte dei pezzi elettrici della band inglese. A proposito di suono, Richards è un chitarrista atipico per la sua generazione. Mentre molti guitar heroes hanno voluto beneficiare di quei rivoluzionari stompboxes – anche molto rudimentali (come i primi wah wah, gli eco a nastro o i fuzz)  – che proiettavano verso prospettive sonore del tutto inedite anche artisti poco avvezzi al genere (vedi il primo Clapton con i Cream) verso la psichedelica o sperimentazioni di vario tipo – Richards ha preferito rimanere fedele ai suoi “padri”, con un suono diretto, scarno, ma non per questo meno potente.

Può sembrare paradossale il fatto che uno dei suoi riff più famosi, quello di (I Can’t Get No) Satisfaction, sia, a detta sua, uno dei pochi casi – se non l’unico – in cui Richards abbia rinunciato ad un setup essenziale che vede la chitarra direttamente collegata all’amplificatore spinto al massimo. È proprio in questo pur minimale ma mai scontato connubio che nasce il sound dei Rolling Stones. Keith Richards ama portare al limite i suoi dispositivi di riproduzione e amplificazione del suono, così era negli anni Settanta, quando in studio suonava a tutto volume amplificatori di piccola taglia come il Supro 1600 supreme o il leggendario Fender Champ,  così come ancora oggi, prevalentemente dal vivo, ha reso famoso il suo fedele Fender Twin Amp a due coni che permette di far esplodere il muro di suono dei suoi accordi nelle arene e negli stadi di tutto il mondo. C’è un rapporto di continuità diretto tra la tradizione blues, quella del rock n’roll e il suono del chitarrista britannico.

Se Little Walter amava mandare in overdrive gli amplificatori a valvole della Chess Records suonando la sua armonica attraverso un microfono, Keith ha saputo inventare diverse soluzioni per riprodurre quel sound così provocatorio e transatlantico che è la cifra del suo chitarrismo. Celeberrimo l’esempio della sessione di registrazione di Street Fighting Man, quando Keith e  Watts registrarono buona parte del pezzo (che aveva un suono decisamente heavy per i tempi), sfruttando semplicemente la distorsione di un piccolo registratore a nastro Sony impostato con il massimo del guadagno in entrata e suonando una chitarra acustica con uno strumming molto energico a pochi centimetri dallo stesso.

Il sound è enorme, e sarebbe inimmaginabile pensarne la provenienza da una chitarra acustica, quanto inimmaginabile sarebbe concepire il potentissimo riff di una Brown Sugar, come proveniente da un minuscolo Pignose amp da viaggio. Richard ha saputo portare nella musica europea e mondiale tutta questa tradizione, trasformando la provocazione e la volgarità dei suoni sgranati figli delle sue Telecaster (e non solo… ha suonato di tutto) e poco definiti in un canone fondamentale e imprescindibile per qualunque chitarrista di accezione popular, trascinando tutta l’energia del rock n’roll più puro in contesti ben più ampi rispetto alle sale da ballo o le radio degli anni 50/60.

Tutto questo però era arrivato in modo graduale e probabilmente fu con la morte di Brian Jones, che Keith divenne il principale arrangiatore – oltre che compositore – delle sezioni di chitarra dei Rolling Stones e mutò radicalmente il suo modo di suonare. Del resto, come tutti i membri della band hanno più volte ribadito, nell’anno che aveva preceduto il tragico evento della sue morte, Jones aveva già ridotto al minimo i suoi contributi nella registrazione dei pezzi. Il tipico riff making di Richars si afferma proprio in questo periodo, gli anni di un classico come Jumping Jack Flash e del passaggio quasi definitivo alle accordature aperte. Con l’arrivo di Mick Taylor Keith ha maturato il suo stile, poi perfettamente completato dal connubio vincente con Ronnie Wood (sua vera anima gemella musicale … e non solo).

Il fatto di essere diventato a tutti gli effetti “il chitarrista ritmico” accanto a un “solista virtuoso” come Taylor ha portato Richards alla necessità di creare quello che nella musica colta – e lui stesso ama definirlo così appropriandosi del termine – il bordone di chitarra, il pedale dominante, la colonna portante su cui poter far muovere l’intera carovana stonesiana. La caratteristica fondamentale del suono della band sta proprio in questo: Richards è diventato la sezione ritmica principale, con la sua chitarra che anticipa leggermente la batteria. Charlie Watts ha più volte sottolineato come il suo playing fosse in qualche modo subalterno ai riff di Richards. Per questo la batteria negli Stones dipende dalla chitarra e non il contrario (come accade nella maggior parte dei casi) dando quel senso di precarietà costante che ne è anche la cifra distintiva.

Come già accennato, Richards avrebbe utilizzato nel tempo diverse accordature aperte (su tutte quella in open G). Si tratta di particolari sistemi di accordature, di solito utilizzate nel blues per la chitarra slide, in grado di permettere di suonare la maggior parte degli accordi principali con un semplice barrè. Al di là della semplicità dell’esecuzione, suonando con la chitarra settata in questo modo si riesce ad ottenere un suono molto compatto, potente e risonante, in particolare lasciando vibrare a vuoto le corde con cui si riesce a riprodurre l’accordo su cui si basa l’accordatura (nel caso dell’open G un sol).

Richards ha saputo sfruttare sapientemente queste caratteristiche meccaniche della chitarra, spostando il capotasto mobile lungo diverse altezze della tastiera per poter beneficiare delle corde a vuoto in differenti tonalità. È proprio grazie a tale sistema che sarebbero nati riff iconici come quello di Start Me Up, Tumbling Dice, Rip This Joint, e soprattutto Honky Tonk Woman, vero e proprio manifesto del mantra “cinque corde, due dita, uno stronzo”.

Se lo “stronzo” è abbastanza evidente chi sia, chiariamo finalmente il perché delle 5 corde. Come spesso accade, molte delle scelte di Richards avvengono per caso (o perlomeno ha voluto lasciar trapelare questo). Dopo una rottura accidentale della sesta corda della chitarra (il mi grave) Keith si è reso conto di come questa –  per il suo particolare modo di suonare con le accordature aperte – non fosse fondamentale, anzi quel suono grave “si sovrapponeva al bassista”. Per tale ragione Richards ha costruito alcuni dei suoi riff più importanti semplicemente spostando le sue dita (di solito gliene bastano due) sulle restanti 5 corde, con un suono molto più medioso e decisamente profondo dando quell’effetto “rasoiata” ad ogni sua pennata.

Quanto detto (sommariamante) fino a ora si riferisce ovviamente solo a una parte della produzione stonesiana, e sostanzialmente quella di matrice elettrica. A mio personale avviso però Richards ha tirao fuori il meglio proprio con la chitarra acustica, nelle ballads in cui si raccolgono tutte le influenze musicali che vanno al di fuori delle classiche dodici battute blues. Il country (forse ereditato grazie a Berry), il folk rock, il reggae ma anche il Jazz e la musica ispano-americana, sono sempre stati pane quotidiano per il leggendario chitarrista inglese e per quella che è la sua composizione.

Richards del resto ha tirato avanti la sgangherata carovana dei Rolling Stones rinunciando alle velleità del chitarrismo solista, in un’epoca in cui il virtuosismo sembrava la cifra distintiva del chitarrista Rock, aprendosi a varie influenze per migliorare la resa sonora delle tracce. Basterebbe ascoltare qualche canzone come You Got the Silver, Sweet Virginao Play with Fire per comprendere tutto lo spessore musicale e la profonda sensibilità artistica di chi sa mettere le note giuste al momento giusto, pur suonando qualche semplice accordo sgangherato.

Ma forse meglio non concludere l’articolo con troppa dolcezza, del resto, It’s only rock n’roll e a chi non piace quel suono o quell’esecuzione minimale… dito medio alzato perché we like (Ke)it.

 

Ascolti consigliati:
  • Exile on Main Street
  • Get Yer Ya-ya’s Out!
  • Let It Bleed
  • The Rolling Stones Rock and Roll Circus
  • Beggar Banquet

 

 

       Matteo Palombi – Onda Musicale

— Onda Musicale

Tags: Keith Richards, The Rolling Stones, Mick Jagger, Donald Trump, Mick Taylor, Charlie Watts, Satisfaction, Fender Telecaster
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