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Un disco per il week end: “Creuza de mä” di Fabrizio De Andrè

Anno 1984. Provate, per un momento, a immaginare il panorama musicale internazionale del momento: Queen, U2, AC/DC, Van Halen, Bon Jovi, Talk Talk, Dire Straits.

I pochi nomi che ho elencato sono – banalmente – accomunati dal fatto di cantare in lingua inglese. Già il cantare nella propria lingua sarebbe un discostarsi da questa sorta di regola, ma il cantare in “dialetto” apparirebbe come una scelta totalmente controcorrente. Potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio; un azzardo, con un’elevata probabilità di trasformarsi in sonoro flop. Oppure in grandioso successo.

Il Fabrizio De Andrè di quell’anno gioca coraggiosamente la sua carta: l’intuizione è valida e fa centro con Creuza de mä, un disco che – a cominciare dal titolo – è cantato in lingua genovese.

La scelta poggia su due motivi. Primo: Genova è la sua città, quindi il genovese è un registro espressivo che appartiene al suo ambiente più intimo e familiare; secondo: nei secoli centrali del Medioevo e della prima età moderna, la Repubblica di Genova (la Superba, in contrapposizione con Venezia, nota soprattutto come Serenissima) era riuscita a creare un network commerciale che collegava la città di San Giorgio ai principali porti e alle principali città del Mediterraneo, soprattutto quelli musulmani del Nord Africa e del vicino Oriente (cioè Egitto, Palestina, Libano e Siria, per non dimenticarsi dell’Asia Minore). I commerci smuovono tanti tipi di prodotti: dalle spezie agli schiavi, passando per le parole. Le parole sono quasi senza dubbio il lascito più duraturo di tale orizzonte culturale, dal momento che la lingua le accoglie e le rende sue.

De Andrè ricrea in modo autentico e seducente il respiro e il profumo della dimensione mediterranea di Genovaricorrendo ad una gamma di strumenti musicali che generalmente ritroviamo nella cosiddetta “musica etnica”. Anche questo è uno degli elementi che contribuiscono a distaccare ulteriormente l’LP dalle regole del mercato discografico. Eccetto i protagonisti della musica rock (sintetizzatore, batteria, basso), della musica Classica (chitarra, viola, violino e flauto) e popolare (mandola e mandolino), gli strumenti che danno corpo a Creuza de mä sono azzeccatissimi prestiti dalle culture che spaziano dalla Spagna moresca all’Asia Centrale.

In questa sede possiamo nominare il darabouka (strumento a percussione, simile a un vaso, diffuso in Nord Africa e Medio Oriente), la famiglia degli strumenti a corda del mondo ellenico e islamico (oud, saz e bouzuki, imparentati con il liuto ma differenziati per la tipologia del manico – più o meno variabile in lunghezza e larghezza, con eventuale presenza di capotasti), gli strumenti a fiato anch’essi originari della stessa area geografica (lo shanai indiano – un incrocio tra un flauto e un oboe, accomunato a quest’ultimo dal fatto di essere suonato con un’ancia – noto in Persia come surnay e in Turchia come zuma, e la gaida – parente di cornamusa e zampogna, diffusa in Bulgaria, Macedonia e Tracia).

Per quanto riguarda l’ensemble di professionisti che collaborano con De Andrè non possiamo ignorare Franco Mussida e Mauro Pagani, esponenti di spicco della Premiata Forneria Marconi, uno dei più grandi gruppi di progressive rock degli anni Settanta e non solo.

Ma ora veniamo alle canzoni: i sette brani del disco sono un universo sonoro in cui domina la dimensione del mare, dato che il brano di apertura – che dà il titolo all’intera opera – è un’espressione idiomatica: le creuze (imparentate con i carruggi) sono delle strade – a volte lastricate a mattoni – che corrono verso le alture e spesso si trovano fiancheggiate da proprietà oppure da edifici. La creuza de mä diventa una sorta di via acquatica, dal momento che i suoi riflessi argentei sembrano produrre l’illusione ottica di strade che solcano il blu sublime del Mar Ligure.

Il mare non è un deserto ingombro di silenzio, dal momento che il marinaio è il suo protagonista, da “Creuza de mä” a “Da a me riva”, brano in cui il crepuscolo crescente e le luci che si accendono rendono il senso del distacco dall’amata Zena (cioè Genova) e chiudono così il disco. Nei versi delle canzoni fanno capolino anche figure poco amate come la “Pittima”, cioè chi aveva l’infame e gravoso compito di riscuotere i crediti altrui, e scene in cui domina l’ipocrisia travestita da giornata di festa, come in “A Dumenega”, quando la passeggiata delle prostitute diventa bersaglio dei benpensanti. “Sidùn” – città della Fenicia, culla della civiltà- invece è una denuncia della guerra scoppiata in Libano nel 1982: in pochi versi il dramma di un ragazzo ucciso dai cingoli di un carro armato.

Grande affresco storico invece è lo straordinario pezzo di “Sinan Capudan Pascià”, in cui si rievoca la vita di Scipione Cicala, nato a Genova nel 1545 e morto nell’Impero Ottomano nel 1605, convertitosi all’Islam per salvarsi la vita e divenuto figura di spicco della corte ottomana, che De Andrè tratteggia come un personaggio animato da scaltro opportunismo, che gli consente di vivere pur restando fedele alla propria natura.

 

— Onda Musicale

Tags: Fabrizio De Andrè, Crêuza de Mä
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