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Rockets: intervista alla band che ha inventato lo “space rock”

I Rockets sono una band francese che ha ottenuto il suo massimo successo in Italia alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80. I Rockets proponevano un genere musicale che spesso veniva definito “Space Rock“.

Memorabili alune loro hit come Future Woman, Space Rock, One More Mission, Elecric Delight, Galactica, On The Road Again. In un secondo momento il loro genere musicale viene definito pop synth o elettro-pop.

La band nasce alla metà degli anni 70 quando un gruppo di giovanissimi, già dediti al rock blues (cover), decidono di proporre una musica più sperimentale. Ideatore di questo progetto è il produttore francese Claude Lemoine. Nel corso degli anni la formazione vede molti avvicendamenti fra i musicisti e pubblica 11 dischi, più l’ultimo uscito poche settimane fa (leggi l’articolo), 10 raccolte e 22 singoli.

La band attualmente è formata da Fabrice Quagliotti, John Biancale, Rosaire Riccobono, Eugenio Mori, Gianluca Martino.

Li abbiamo contattati e abbiamo rivolto loro alcune domande alle quali ha risposto Fabrice Quagliotti.

Nel 1976 esce il primo disco omonimo che contiene alcune cover eseguite in modo piuttosto interessante. Come è nata l’idea di formare la band?

“L’idea nasce dal nostro produttore Claude Lemoine, con l’intenzione di fare qualcosa di innovativo: creare una band che avesse una somiglianza con gli extraterrestri (da qui i costumi argentati) e con una musica che corrispondesse a quell’immagine (da qui l’utilizzo di sintetizzatori).”

Il grande successo arriva nel 1978 con il disco “On The Road Again”, suonato ancora oggi in molte discoteche. Cosa ricordate di quel disco?

““On the road again” fu il primo brano fatto con i Rockets: io (Fabrice Quagliotti – NDR) ero in studio con Claude e Groetzinger  (che era il batterista) e Claude mi disse che voleva fare una cover proprio di quel brano. Io l’ho ascoltato e ho pensato che fosse molto lontano da quello che facevamo, ma che poteva essere interessante. Mi ha chiesto di trovare una sequenza: da lì è nato questo brano e devo dire che ne vado molto orgoglioso.”

Nello stesso periodo decidete di “emigrare” in Italia, grazie al produttore Maurizio Cannici. Come è nata questa idea e che ricordo avete di lui che è scomparso qualche anno fa?

“Maurizio Cannici ha visto il gruppo per la prima volta nel 1976, e dall’anno dopo ha deciso di investire sui Rockets: per lui è stato un grosso rischio, perché la band è sempre stata almeno 30 anni avanti. Ma insieme a Maurizio Salvadori della Trident ha creduto davvero nei Rockets, e grazie a loro siamo arrivati in Italia: da lì abbiamo girato anche in altri paesi, ma la nostra nazione affettiva è l’Italia, dove infatti vivo tutt’ora.”

In quel periodo spesso venivate contestati ai vostri concerti, ma solo in Italia. Per quale ragione?

“Abbiamo subito spesso contestazioni di autonomisti di sinistra che ci paragonavano ai nazisti, ma era una contestazione dettata dall’ignoranza: la prima chitarra non era una svastica ma una croce del sole Incas, e la rasatura non era un richiamo al nazismo. Sicuramente quello è stato un periodo molto difficile in Italia.”

Sempre in quel periodo nasceva un altro grande gruppo elettro pop/rock, i Kratfwerk. Spesso le due band vengono accomunate come interpreti di uno stesso genere. Cosa ne pensate al riguardo?

“È vero tanti ci hanno paragonati ai Kraftwerk, ma io non ho mai capito il perché. Loro facevano musica elettronica, ma a differenza nostra erano degli ingegneri del suono, noi invece eravamo un gruppo rock che utilizzava l’elettronica. In comune c’era il vocoder, che però abbiamo utilizzato ognuno in modo diverso. Amo molto i Kraftwerk perché hanno inventato delle sequenze fantastiche, però abbiamo fatto cose diverse.”

Con Plasteroid il successo si consacra, anche grazie a dei suoni più curati e al passo con la tecnologia dell’epoca. I testi parlano di un futuro (allora) lontano ma, forse, contemporaneo. E’ stata una precisa scelta anche non parlare mai dell’amore?

““Plasteroid” è stato l’album più curato in quanto la band era composta già dai membri definitivi. Io sono entrato per “On the road again” ma alla fine ho fatto solo due/ tre brani in quell’album, mentre dopo sicuramente il mio tocco si sentiva. Per quanto riguarda i testi che non parlavano d’amore è stato voluto, l’unico testo dove si parla d’amore è “Don’t be sad” un brano che è rimasto un po’ in penombra. Diciamo che all’epoca per noi non era il momento di parlare d’amore nei testi, il nostro messaggio era diverso, riguardava come poteva essere la vita nel futuro e su altri pianeti, quindi l’amore c’entrava poco.”

L’arrivo della New Wave sembra avere dato una “mazzata” alla vostra band. E’ cosi?

“Ha dato una “mazzata” a tanti, soprattutto ad una band come i Rockets. Il fatto di avere un’immagine così forte ci ha creato una sorte di gabbia, ed uscirne è stato difficile. Sicuramente abbiamo modificato il tiro, abbiamo fatto un paio di album molto interessanti ma fuori dai classici canoni Rockets. I fan “tradizionalisti” non l’hanno presa subito tanto bene, l’hanno accettato col passare del tempo. È difficile avere una carriera lunga, e l’avere un’immagine così forte ci ha aiutato all’inizio ma dato problemi in un secondo tempo.”

Dal 2003 al 2014 fate una lunga pausa per ripresentarvi con la formazione profondamente rinnovata. Tuttavia, il disco Kaos non riscuote il successo sperato. Come ve lo spiegate?

“Abbiamo avuto un lungo periodo di inattività musicale e il fatto che “Kaos” non abbia avuto un buon successo è perché la casa discografica avrebbe dovuto investire di più nella comunicazione.”

Della formazione iniziale ormai non è rimasto nessuno. L’unico di quel periodo è Fabrice Quagliotti (che entra nella band nel 1977). Tuttavia, nonostante i numerosi cambi di formazione, siete riusciti a mantenere il vostro sound.

“Sì, è vero, la band oggi come oggi è diversa da più di 10 anni; adesso ci sono io (tastiere e vocoder), John Biancale (voce), Rosaire Riccobono (basso), Gianluca Martino (chitarra) e Eugenio Mori (batteria). Rosaire tra l’altro ha suonato con i Rockets già nell’84 e ha fatto parte della band Visitors quindi era una persona con cui lavoriamo da tanto, senza contare che quando avevamo 16 anni suonavamo insieme quindi siamo amici di lunga data. Comunque, abbiamo cercato di tenere un sound riconoscibile, cosa a cui tengo molto.”

Con “Wonderland” c’è un ritorno alle origini o un cambio di rotta? Cosa puoi dirci di questo disco?

“I primi album dei Rockets avevano testi che si ispiravano alla spazio e alle sue dimensioni. Con “Wonderland”, invece, i Rockets sono molto preoccupati per quanto sta succedendo al nostro pianeta. La mancanza di rispetto nei suoi confronti, l’inquinamento fuori controllo, le guerre di potere, la mancanza di punti di riferimento e di ideali veri! Confidiamo nella purezza d’animo dei bambini. Solo loro potranno salvare la Terra. Non a caso il colore predominante del nuovo album è il violetto. Migliaia di anni fa, il nostro pianeta aveva un aspetto violaceo dovuto all’esistenza di batteri e microorganismi acidi che intervenivano sul processo della fotosintesi clorofilliana, facendo assumere alla vegetazione una pigmentazione viola. Era un pianeta puro e sano. Sogniamo un pianeta così. “Wonderland” dovrebbe essere quindi il nostro pianeta, il pianeta delle meraviglie. Ogni tramonto, ogni raggio di sole, ogni fiore, ogni stella, ogni cambiamento di stagione è pura poesia. Cerchiamo quindi di tornare ad essere bambini, per salvare il salvabile e non andare incontro ad una catastrofe. E’ un messaggio semplice, con un profondo significato”

Che progetti avete per il futuro?

“Vogliamo fare un fumetto, che diventerà poi un libro; è un progetto molto bello, si parlerà del video, di “Kids from Mars”, sarà un fumetto fantastico con un cammeo di un ospite che al livello fumettistico è il numero uno, ma il nome è ancora top secret. E poi sicuramente concerti all’estero.”

   Stefano Leto

— Onda Musicale

Tags: Rockets, Gianluca Martino
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