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Nick Mason Live @Parco della musica: la scommessa vincente dell’ex Pink Floyd

Non c’erano prismi su sfondo nero, né uomini in fiamme che si stringono la mano, il cielo era quello di una serena notte romana di mezza estate e non pareva esserci l’ombra di maiali volanti, né di strani pupazzi meccanici, schermi circolari, palchi enormi e spiagge costellate da lettini d’ospedale.

Beh, qualche accenno a quel mondo lì c’era, parliamo sempre dei Pink Floyd – o meglio, di un ex – eppure il classico repertorio visivamente floydiano lo si ritrovava più sulle magliette dei numerosi fan sparsi qui e lì che sulla scena. Un breve e neanche minimamente autocelebrativo nome su un cartellone, insieme a tanti altri, segnalava che il 16 luglio 2019 presso la Cavea dell’Auditorium Parco della Musica si sarebbe esibito Nick Mason con i suoi Saucerful Of Secrets, quello che, stando alla piccola annotazione sottostante il nome, si presenta come il “cuore pulsante dei Pink Floyd”. Il palco, sobrio, di un comune concerto per intenditori, non per le folle immense: qualche colore, il logo della band, tinte in stile anni 60’, qualche vecchio gioco di luce sempre d’impatto e gli strumenti.

Non c’era nulla del gruppo che a trent’anni e un giorno da questo concerto romano si esibiva a Venezia – al massimo c’era qualcosa dello stesso che, anni prima, suonava “roba strana e molto alternativa” (cit. RW) nel vuoto anfiteatro di Pompei – non la chitarra di David Gilmour, non il compianto Rick Wright – che proprio con il chitarrista qui aveva suonato nel 2006 – e nemmeno uno dei kolossal dello spigoloso Roger Waters. Dal palco arriva anche un’altra smentita: “non siamo gli Australians David Gilmour”, con un po’ di cinica ironia sul dilagare delle band tributo internazionali accolte come “più vere degli originali”. Alla fine, a stagliarsi al centro della formazione a cinque c’era un mite e simpatico batterista inglese, l’unico che dei Pink Floyd conosce anche l’ultimo dei calzini sporchi, avendo suonato con la band sempre e comunque, nonostante le burrascose vicende interne al gruppo.

Un batterista a capo di una band, non un gran virtuoso e nemmeno un granché attivo da anni, non sa cantare, non ha scritto dei pezzi totalmente di suo pugno, funzionerà? “Non sei un musicista, sei un batterista”, così lo irrideva scherzando Roger Waters nel corso di una delle tante interviste in cui lui, Nick, tentava di punzecchiare i suoi ex bandmates per stimolarli, invano, a tornare insieme on the road. E così, dopo diversi anni di attesa ha deciso di farlo da solo, con dei comprimari di tutto rispetto quali: Guy Pratt (praticamente un ex Pink Floyd late years); Gary kemp (ex voce e chitarra degli Spandau Ballet); Lee Harris (altra brillante chitarra); Dom Beken (tastiere varie) e ovviamente lui stesso alla batteria.

E così, se Gilmour continua a giganteggiare con la sua chitarra – quando non raccoglie funghi o cucina bistecche – e se Roger Waters prosegue la sua battaglia contro i mali del mondo a suon di “charade”, muri luminosi e maiali volanti, il buon Nick mette in scena una furba ma arrischiata operazione nostalgia che nessuno dei suoi ex compagni di gruppo aveva mai proposto. “Operazione nostalgia” più per lui forse che per il pubblico – non quello che va ai suoi concerti, ma per i -mila che riempiono gli stadi dei suoi ex colleghi – perché il mondo degli spettacoli floydiani ci ha abituato da anni alla riproposizione dei best of di maggior successo, dimenticando totalmente (e colpevolmente) una parte meno scontata – e forse fruibile – ma non meno interessante della storia della band.

Il nome della nuova formazione, Saucerful of Secrets, richiama alla mente territori e tempi sfumati – quelli del secondo disco della band – con il fantasma di Syd Barrett molto più vivo e presente di oggi e le atmosfere della lontana Swinging London. A prescindere dalla qualità dell’esecuzione, il progetto di Mason ha già il merito di far riprendere in mano dischi meno inflazionati, farli riascoltare in vista del tour mondiale – che intanto era iniziato, quasi per gioco, nei locali inglesi mesi fa – e far riapprezzare delle intuizioni troppo accantonate di fronte alla magniloquenza e la perfezione dei concept album post 1973. E proprio mentre si riascoltano in macchina canzoni come The Nile Song che mai si sarebbe creduto di ritrovarsi dal vivo (con una performance da far paura), si riflette anche sul fatto che quel furbone di Mason, prima che i Pink Floyd diventassero per tutti i Pink Floyd, era anche un batterista molto interessante, uno che si dava da fare, che picchiava forte per non far crollare il pezzo su un mixing ancora molto scarno e rudimentale e che riprendeva a man basse da gente che negli stessi anni la batteria la stava rivoluzionando, come Ginger Baker. E in effetti la scelta del repertorio degli early years risulta efficace sin dai primissimi momenti dell’esibizione romana, con il riff acido e tagliente di Interstellar Overdrive sul quale emerge una batteria mai così centrale e protagonista in un recente mix floydiano.

Mason compare sul palco emozionando: è la classica silenziosa entrata in scena “a la Pink Floyd”, siede sul seggiolino con disinvoltura, mentre in sottofondo strani rumori e vocii dall’impianto di amplificazione lo accomagnano in scena. Classe inglese e un ghigno sul volto tra il tenero, il divertito e il soddisfatto. Dimostra una discreta freschezza nel fraseggio, con quel tocco caratteristico che – ora possiamo dirlo – tanto era mancato agli ultimi live floydiani e l’energia di un musicista pienamente convinto ed entusiasta del proprio progetto.  Finalmente sta riportando in giro la sua musica, quella che gli ha cambiato la vita, quella di quando aveva vent’anni, quella del suo doppio dal 1967 proiettato sullo schermo, e lo sta facendo mezzo secolo dopo.

L’impatto con lo spettacolo però non è dei più anacronistici, anzi… La band ha lavorato egregiamente agli arrangiamenti, smussando un po’ la rozzezza puerile degli anni Sessanta a favore di un suono elettronico moderno, fresco, ma non meno ricercato, riuscendo nel contempo a fuggire da quel fastidioso “effetto cover band” che affligge spesso gli spettacoli di questo tipo. Si fanno apprezzare sin da subito le chitarre, con l’inedita coppia Harris-Kemp capace di dimostrare una sintonia innata, tirando bending sporchi, giocando con i feedback gli slides infiniti e le leve del vibrato. L’esperienza sul campo, l’eredità di David Gilmour e Syd Barrett viene sfruttata al meglio, riconsegnando all’ascoltatore il genio del diamante pazzo, sempre poco ricordato e celebrato, ancora intatto.

E su Syd, la cui immagine evocata dalle parole di mr. Mason viene proiettata sul telone posteriore alle sue spalle, c’è un primo grande applauso di un pubblico che, dopo canzoni come Astronomy Domine o la funambolica Lucifer Sam, è già entrato nell’atmosfera. Si susseguono ricordi e celebrazioni, senza retorica, con molta ironia e mai negando il passato. Finalmente un ex Pink Floyd che il suo ex gruppo lo chiama per nome e lo fa in più di un’occasione, lo fa senza paura, o meglio, Fearless, che poi è un’altra traccia bellissima e spesso accantonata, con quell’interessante sovrapposizione di musica e i cori di You’ll Never Walk Alone

Guy Pratt è a tutti gli effetti il direttore d’orchestra, salta qui e lì sul palco dando indicazioni a Nick, che in un paio di casi ha la tendenza ad anticipare gli attacchi, mantenendo sempre vivo il pezzo e privo di inciampi. Oltre che basso e chitarra, Pratt e Kemp si alternano alla voce prendendo ora posto di Syd, ora di David, ora di Waters. A tal proposito, If è stato uno dei momenti più intensi e interessanti dello spettacolo per quanto concerne le innovazioni apportate dai Saucerful of Secrets, trasformando le strofe della canzone in una cornice con inizio e reprise finale nel mezzo della quale si trova una sintesi della suite di “Athom Heart Mother” dai godevoli intrecci di chitarra classica di Kemp e l’elettrica di Harris sopra il basso di Guy Pratt che tesse splendidi tappeti sonori. Uno dei pochi nei di un’esibizione che – si sarà capito – è stata impeccabile, lo si trova proprio nel mezzo di questo medley, con il botta e risposta delle chitarre di Harris e Kemp contrapposte alle tastiere di Dom Beken dal suono poco presente, convincente e adatto alla canzone.

Il resto del concerto scorre via con disinvoltura, con una scaletta meravigliosa contenente classici dell’era Barrett – come Bike (pezzo reso ancor più geniale dal vivo) o See Emily Play(sul quale il pubblico è letteralmente esploso) – e soprattutto capolavori del periodo maggiormente sperimentale.

L’apice dell’esibizione lo si raggiunge con una bellissima performance di Set the Controls From the Heart of the SunGuy Pratt nei panni di Waters a sussurrare dal microfono, Harris, Lee e Beken creano un clima di tensione crescente seguendo Mason – è il suo momento – intento a suonare sui tom quella sequenza ritmica ipnotica. È un brano perfetto e perfettamente riuscito: sale, accumula energia ma non va da nessuna parte finché Guy Pratt, con un colpo secco sul Gong, non lo spezza restituendo respiro al pubblico che esplode in un applauso infinito. Altri momenti memorabili sono quelli dal maggior potenziale psichedelico, come Let There Be More Light la sua introduzione ossessiva e spasmodica, il cadere e rallentare del pezzo e le esplosioni del ritornello; o il classico One of These Days con Guy Pratt al basso protagonista assoluto accanto a un Lee Harris di gran carriera con la Lap Steel. Nick, nel frattempo, si lascia andare in un groove gustoso e tiratissimo che, nuovamente, fa rimpiangere tutta l’assenza del suo tocco semplice ma caratteristico nelle recenti esibizioni degli altri Floyd.

In generale, lo spettacolo è ricco di perle e spunti interessanti che lo rendono piacevole in ogni suo aspetto, ogni suo momento, ogni sua peculiarità. Non si sa mai verso quale direzione il pezzo possa andare ed è davvero un piacere scoprire, nota dopo nota, canzone dopo canzone, cosa ci sarà dopo e come verrà eseguito. I brani hanno spesso una struttura irregolare, sperimentale e discretamente aperta – sia per la loro natura che per il modo in cui sono stati riscritti – non cascano mai nel pantano del già visto o del già ampiamente frequentato, incuriosiscono costantemente, trasportano, immergono lo spettatore. Forse a mancare è un pizzico di follia, in alcuni casi le canzoni hanno un aspetto fin troppo docile rispetto alla loro forma originale ma la qualità del tutto e la capacità di coinvolgere tolgono ogni dubbio sulla riuscita del progetto.

Come disse Bob Geldof i Pink Floyd sono sempre stati “un’essenza sonora” prima di essere altro, e credo che Mason di quell’esperienza abbia colto ampiamente i frutti in uno spettacolo del genere. In fondo, chi non si è visto comparire dinanzi l’immagine di quei quattro ragazzi a Pompei sul finire di A Saucerful of Secrets? Chi non ha provato un brivido con quel salire graduale guidato dall’organo, prima della Celestial Voice? Chi, dopo il ricordo di Pratt al genio di Wright, non ha sentito un groppo in gola? Senza pretese, velleità, soli strappalacrime o scenografie pompose, Nick ha saputo riproporre l’essenza stessa di quel suo passato mai dimenticato e mai snobbato, forse incarnandolo meglio di altri, forse trattandolo con rispetto, forse ricordando di essere anche un ottimo batterista. 

O magari, semplicemente, ridendoci su a fine spettacolo, quando tutto si spegne tra gli applausi e la voce di Syd su Jugband Blues.

Scaletta

“Interstellar overdrive”
“Astronomy domine”
“Lucifer Sam”
“Fearless”
“Obscured by clouds/When you’re in”
“Remember a day”
“Arnold Layne”
“Vegetable man”
“If/Atom heart mother/If”
“The Nile song”
“Green is the colour”
“Let there be more light”
“Childhood’s end”
“Set the controls for the heart of the Sun”
“See Emily play”
“Bike”
“One of these days”
“A saucerful of secrets”
“Point me at the sky”

Si ringrazia  Marco Bozzato per le foto

  Matteo Palombi – Onda Musicale

— Onda Musicale

Tags: Richard Wright, Nick Mason, Pompei, Syd Barrett, Pink Floyd, David Gilmour, Roger Waters
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