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Alle radici del Progressive: compie 50 anni il primo album degli Yes

Anche se gran parte della critica musicale è concorde nell’indicare Days Of Future Passed dei Moody Blues come primo disco progressive rock della storia, è il 1969 l’anno in cui il genere esplode.

Ciò è dovuto in gran parte ai King Crimson che, con l’esordio In The Court Of The Crimson King, consegnano alla storia un masterpiece del genere, pietra angolare del prog e irripetibile capolavoro nella loro futura, sterminata, discografia.

Negli anni precedenti, oltre ai citati Moody Blues, altri gruppi avevano manifestato irrequietezza nel voler superare i confini del rock che, in pochi anni – in un’era in cui tutto succedeva alla velocità della luce – parevano già essersi fatti troppo ristretti. Erano per lo più band che venivano dal pop o dalla psichedelica, i Beach Boys di Pet Sounds, i Beatles di Sgt. Pepper, ma anche gli esordienti Pink Floyd; per non parlare di Nice, Vanilla Fudge, Procol Harum, già molto avanti nella commistione di elementi rock e musica classica e jazz.

Ma, senza voler raccontare la storia del prog in poche righe, giungiamo al 1969. Oltre ai King Crimson, esordiscono i Genesis e la Vertigo, etichetta prog per antonomasia, inizia le pubblicazioni con il seminale Valentyne Suite dei Colosseum. Lo stesso anno esordisce una band che scriverà alcune tra le pagine più celebri del rock progressivo, gli Yes.

Gli Yes nascono fortuitamente dall’incontro tra Jon Anderson e Chris Squire, nella swingin’ London del 1968. I due frequentano La Chasse, locale cult per i musicisti rock ed è qui che scoprono la comune passione per le armonie vocali di Beatles e Simon & Garfunkel e la voglia di andare oltre il rock blues o la psichedelica che impazzano in quel periodo. Squire, che dopo aver lasciato i Syn ha fondato i Mabel Greer’s Toyshop, propone di inserire come chitarrista Peter Banks, virtuoso della sei corde stanco di suonare blues. Si aggiungerà Tony Kaye, tastierista precursore nell’uso del Moog e, in risposta a un annuncio su Melody Maker, il batterista Bill Bruford. Quest’ultimo vanta una solida estrazione jazz e si fa notare per le sue posizioni contrapposte a Keith Moon, allora il batterista più celebrato, che milita negli Who.

Il loro primo lavoro – intitolato semplicemente Yes – è assai lontano dai futuri, barocchi, sviluppi della band. Non ci sono ancora Rick Wakeman e i suoi eccessi tastieristici, e nemmeno la colta chitarra di Steve Howe. Il disco non può ancora essere classificato come prog e, nonostante i cambi di ritmo e di atmosfera, i passaggi dell’organo Hammond e i toni jazzati della chitarra e della batteria, si rivela un pastiche continuamente in bilico tra ispirazioni varie; il folk acustico dei Jethro Tull e quello elettrico dei Byrds – la bella cover di I See You – l’heavy psichedelica dei Cream – in alcuni passaggi di Beyond And Before – e gli intrecci vocali dei Beatles, come nella riuscita cover di Every Little Thing, trasfigurata il giusto e con un omaggio al riff di Daytripper (come fatto da Clapton con John Mayall qualche anno prima). La totale inesperienza della band in sala di registrazione ne mortifica inoltre pesantemente molte raffinatezze e intuizioni strumentali.

Il pezzo che più anticipa i futuri fasti del gruppo è la conclusiva, melodica, Survivor. Una sorta di minisuite di sei minuti in cui vengono gettati i semi della futura grandezza.

Altri passaggi da segnalare sono la perfetta, acustica, Yesterday And Today, un delicato bozzetto folk con la voce celestiale di Anderson, Bruford al vibrafono e un bilanciamento negli arrangiamenti che ne fanno un piccolo capolavoro che ancora oggi, dopo cinquant’anni, farebbe la gioia di qualsiasi band indie; oppure il fenomenale intermezzo jazz di I See You, con la chitarra di Banks che prima suona liquida come in un pezzo di Wes Montgomery, poi s’inalbera in pesantezze da hard rock, per planare nelle rassicuranti lande blues allora imprescindibili. O l’accattivante Looking Around, tra Beatles e primi Deep Purple.

Yes è insomma un disco assolutamente acerbo per gli amanti dello yessound che verrà, tuttavia estremamente importante nel tratteggiare un’epoca di grandi cambiamenti e in cui l’ispirazione di questi ragazzi poco più che ventenni era costantemente in fermento.

E, cosa non di secondaria importanza, un lavoro ancora godibile e che forse è invecchiato meglio dei capolavori prog che l’avrebbero seguito.

— Onda Musicale

Tags: Deep Purple, Pink Floyd, Genesis, Cream, Jethro Tull, King Crimson, Keith Moon, Moody Blues, John Mayall
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