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1969: l’anno in cui i Beatles divennero immortali

Il decennio dei cinquantesimi anniversari oramai volge alla fine. Il numero 50 suona importante, dal momento che suggella la bellezza di qualcosa che dura da quasi una vita intera.

Di solito si parla di nozze d’oro, traguardo certamente non facile da raggiungere, dati i mille ostacoli lungo un percorso spesso imprevedibile.

Nel caso dei dischi, il parlare di nozze suona strano, dal momento che non si ha di fronte una persona, ma tra un disco e i suoi ascoltatori ci accorgiamo che si crea un rapporto. Potrebbe essere il flirt del momento, che si spegne una volta che si è affievolita la passione (al giorno d’oggi sembrano invece dominare gli incontri fulminei, virtuali, impalpabili, come con Spotify); oppure essere l’inizio di un dialogo che tocca in noi certe corde del cuore, e che ci accompagna lungo l’arco della nostra vita imprimendole una forma del tutto caratteristica.

I dischi che ci toccano nel profondo sono veri:

questa loro sostanza li rende in grado di affrontare lo scorrere del tempo. Se la chirurgia estetica ci inganna facendoci credere che la vecchiaia non esista, per i dischi autentici – cioè pieni di vita e quindi veri – il problema non si pone affatto. Se poi il delicato e meticoloso processo di remixaggio ne definisce ulteriormente la già eccellente qualità audio, il problema di un eventuale invecchiamento non si pone minimamente.

Siamo al 26 di Settembre, anno Dòmini 2019: il compleanno di Abbey Road, capolavoro a firma Beatles, è proprio oggi (facendo riferimento alla data dell’originaria pubblicazione britannica, cioè il 26 Settembre). Disco di una bellezza straordinaria, dalle armonie ampie e dalle strutture melodiche assai complesse ed accurate, si è trovato – per via del corso degli eventi – a essere il penultimo lavoro del gruppo di Liverpool.

La copertina

Alla sontuosa architettura del lavoro in questione fanno riscontro un titolo e una copertina dalla concezione davvero semplice, ma che proprio tale semplicità ha reso straordinariamente efficaci: non a caso, la “posa” dei quattro musicisti intenti ad attraversare sulle strisce pedonali a pochi passi da quegli Studi in cui hanno creato tutta la loro musica sin dal 1962, è diventata sin da subito un’immagine celeberrima, che ancor oggi centinaia di fan da tutto il mondo continuano ad imitare, con inevitabili blocchi del traffico in zona. E pensare che tra i vari titoli di quello che si sarebbe chiamato Abbey Road vi era Everest. Se non erro, al titolo era collegato uno scatto sull’omonima vetta. I Beatles e lo staff Apple si resero ben presto conto che sarebbe stato troppo scomodo viaggiare fin lì, con tutte le attrezzature fotografiche. L’idea venne accantonata.

Si diceva che l’architettura di Abbey Road è sontuosa:

il lato si apre con  l’inconfondibile introduzione di “Come Together” (che Lennon scrisse per la campagna di Timothy Leary candidato al governo della California), e si chiude con il pesante e cupo blues-rock di “I Want You” (il pezzo più lungo del disco, in cui il rumore bianco finale viene tagliato all’improvviso). La canzone – dedicata espressamente da John a Yoko – contiene un’interessante variazione di ritmo in caratterizzata da seducente pattern eseguito con una chitarra dal timbro caldo.

Something

In mezzo a queste due estremità – non collegate come avverrà invece per la suite del Lato B – troneggia uno dei capolavori nati dalla penna di George Harrison: “Something”. Basterebbe anche solo sentirne la base orchestrale (take n.39, disponibile su YouTube) per rendersi conto che è nobile e grandiosa, avendo quindi la conferma che George è un genio (di se stesso aveva una considerazione più umile, diversamente da Paul, consapevole di essere un grande). “Something”, scritta da George per Patty Boyd – moglie che nel decennio successivo sposerà l’amico Eric Clapton – è la dichiarazione d’amore più bella che si possa immaginare. È sublime, e il tempo che passa non fa che confermarcelo.

Alla solennità di “Something” segue l’apparente leggerezza di “Maxwell’s Silver Hammer”:

il pezzo – che nell’Anthology 3 sentiamo in una delle takes in cui McCartney si diverte a fare divertentissimi e squinternati vocalizzi nonsense – racconta di Maxwell Edison, studente di medicina che in realtà è uno spietato assassino che non si fa problemi nel prendere a martellate chiunque gli capiti a tiro, pure il giudice che lo condanna per gli efferati delitti. Il contrasto surreale è dato dal fatto che la melodia della canzone è simpatica e quasi innocente (me la immagino canticchiata da bambini o ragazzini ignari del tema di cui parla!).

“Oh Darling!” è un dialogo in cui il protagonista chiede alla sua donna di non abbandonarlo e le promette che non la farà più soffrire. L’esecuzione del brano risalta per il basso avvolgente che lo accompagna e per la voce di Paul, così grintosa da diventare quasi roca. Grande performance.

“Octopus’s Garden” è un piccolo pezzo di Italia, o meglio, di Sardegna:

Ringo Starr, non sopportando che le tensioni interne al gruppo fossero arrivate al culmine durante le sedute del White Album, decise di prendersi una vacanza di due settimane. Andò in Sardegna, ospite del celebre attore Peter Sellers. Durante una gita in barca il capitano raccontò la curiosa abitudine dei polipi di raccogliere oggetti luccicanti e pietre per costruirsi un rifugio in fondo al mare che – nell’ottica di Starr – diventava un rifugio dalle pressioni del mondo e dove regnavano la pace e l’armonia tra gli amici. L’unica canzone di Ringo all’interno di Abbey Road è un gioiellino di una tenerezza infinita.

L’occasione di celebrare degnamente il disco più conosciuto dei Beatles non finisce qui: il racconto della formazione di questo capolavoro continua nella seconda e ultima parte! Non mancate!

   

— Onda Musicale

Tags: Eric Clapton, John Lennon, Abbey Road, The Beatles, Ringo Starr, Paul McCartney, Something, White Album
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