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Days of Future Passed: il matrimonio perfetto tra Classica e Rock [Parte Seconda]

L’opera, seguendo l’ordine logico del dipanarsi della giornata, inizia con l’alba, anzi la precede. Il brano di apertura, “The Day Begins” è una suite che inizia con la potenza crescente di un gong.

Ed ecco che, come se si fosse scostato il sipario, inizia un’avventura che ha già l’ambizione da colonna sonora (e che colonna!). Nell’arco di cinque minuti la bacchetta di Knight riassume l’andamento sinfonico del disco e si conclude con un breve componimento scritto dal batterista Graeme Edge. I colori della notte – “per alcuni un breve interludio, per altri la paura della solitudine” – sono ingannevoli (“we decide which is right”). Alla fine il narratore esorta il coraggioso Helios, cioè la personificazione del sole, a destare i suoi destrieri e a portare al mondo il calore di cui ha bisogno. Un inizio niente male per un disco rivolto al grande pubblico!

Dopo la gloriosa ouverture, inizia il giorno. L’alba, esattamente come dice il titolo, è un sentimento, una disposizione dell’anima (“Dawn Is a Feeling”). Le luce e la bellezza che risplendono in noi ci fanno percepire nitidamente la meraviglia di ciò che ci circonda (“You look around you / Things they astound you”). Il momento vissuto è eterno e sembra fuori dalla dimensione del tempo.

La giornata oramai è entrata nel vivo con la vibrante freschezza del mattino (“The Morning: Another Morning”). I verdeggianti archi dell’introduzione lasciano spazio ad un clima di festa reso da flauto e mellotron. Il mondo è visto con gli occhi di un bambino: “Time seems to stand quite still”. Tutto è tranquillo, gioioso ed estremamente piacevole – dato che oltretutto non si va a scuola; il momento sembra durare in eterno, scandito da palloncini, aquiloni, dal gioco dei cowboy. Si va a pesca e si fa il picnic: cosa si può desiderare di più? La saggezza dei bambini (“they seem so wise”) cela un lato in ombra: i sogni di ieri saranno i sospiri di domani. La vita tanto vagheggiata non sarà pienamente identica alle aspettative.

Siamo a metà giornata, l’ora di punta (“Peak Hour”): l’apertura orchestrale, ariosa ed elegante si scioglie in un ritmo incalzante sostenuto dal basso di Lodge. Il ritmo frenetico del brano rende l’idea della scena osservata: la gente si affanna a lavorare senza sosta, a muoversi incessantemente “like million of bees”. Per cosa? Il protagonista vorrebbe dire loro che essi hanno tempo a disposizione, tempo per vivere, vivere consapevolmente.

Si sfuma nel pomeriggio.“The Afternoon” è suddivisa in due parti: “Forever Afternoon (Tuesday?)” che vira verso il crepuscolo di “(Evening) Time To Get Away”. Il narratore ha acquisito quella consapevolezza che augurava alle persone in “Peak Hour”: infatti dice “I’m just beginning to see”. Il cambiamento interiore è accresciuto da “Those gentle voices I hear / Explain it all with a sigh”. Il sospiro è il segno dell’aver raggiunto la terra incantata dell’amore (d’altronde siamo nel 1967, il momento per antonomasia per viaggi fuori dall’ordinario).

A sera appena iniziata, il protagonista esprime l’angoscia di un lavoro alienante, la fonte dell’infelicità, non solo sua ma di chiunque è nella sua situazione: “Toiling has bought too many tears”. Lavorare duramente, spaccarsi la schiena a sgobbare, ha permesso di comprare troppe lacrime. Ma ecco che giunge l’esplosione liberatoria: la sera è il momento di fuggire, di evadere momentaneamente dall’ordinario.

Giunge la sera. Il sole tramonta materializzandosi con un’orchestrazione dai colori fortemente evocativi: non è un oriente “all’indiana” (rappresentato soprattutto dal sitar), come è la moda dominante del periodo, ma è un oriente che fa pensare più a Costantinopoli e il Corno d’oro, ma non solo. Un nuovo respiro orchestrale ci conduce al momento del crepuscolo (“Twilight Time”). All’interno di una tessitura vocale potentissima, aperta da un pianoforte ben marcato ed accresciuta anche da un magnifico riverbero da cattedrale, ci troviamo trasportati in un’ambientazione surreale, dove gli usignoli cantano una melodia dolce e un po’ oscura e i pipistrelli fanno movimenti davvero esagerati. Un luogo davvero dark e gotico.

Il giorno finalmente si conclude. La sontuosa “Night In White Satin” è una delle più belle dichiarazioni d’amore di tutti i tempi. La coda del brano si risolve in un crescendo orchestrale che pare un riemergere dagli abissi. Dopo il testo recitato da Mike Pinder, un colpo di gong chiude il racconto, e l’impressione è quella di un sipario che si è chiuso sul palcoscenico.

A conferire nuova vita, nuova luminosità al disco, ci ha pensato la sua esecuzione live ad opera di tre dei membri originari della band: Edge, Hayward e Lodge, coadiuvati – come in origine – dall’orchestra. Era il 2017: il momento propizio per celebrare il cinquantesimo anniversario di uno dei più felici connubi nella storia della musica.

— Onda Musicale

Tags: Moody Blues
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