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Il 1969 dei Pink Floyd: la storia di Zabriskie Point

Se cinquant’anni fa vi fosse capitato di passare dalle parti di via Urbana, a Roma, all’ora dell’aperitivo, avreste potuto incontrare quattro ragazzi dai capelli lunghi e vestiti alla moda. I loro nomi erano David, Roger, Richard e Nick. I Pink Floyd.

I quattro musicisti destinati a entrare nel mito della musica rock, allora erano reduci da un’annata forsennata, culminata col doppio album Ummagumma, uscito da appena qualche giorno; ma erano, in fondo, ancora degli outsider abituati a una vita on the road fatta di concerti e alla ricerca della svolta che potesse garantirgli imperitura fama. E così, quando i Pink Floyd stanno iniziando a lavorare sul seguito di Ummagumma, un lavoro ancora nebuloso che nelle intenzioni doveva basarsi sulla collaborazione con un’orchestra – da cui nascerà Atom Earth Mother – la chiamata che arriva dagli studi MGM di Hollywood sembra scombinare tutti i piani.

Michelangelo Antonioni vuole la band a Roma per registrare la colonna sonora del suo secondo film a produzione americana: Zabriskie Point. Il manager del gruppo chiede una cifra vertiginosa, dapprima rifiutata e poi accordata; ma non è solo il compenso a convincere i ragazzi di Cambridge. Poco tempo prima la collaborazione con Barbet Schroder per la soundtrack di More li ha fatti innamorare della musica abbinata alle immagini; il regista francese e i ragazzi sono andati d’amore e d’accordo e il risultato ha accontentato tutti. La possibilità di collaborare con Antonioni, che è considerato un genio del cinema, può inoltre far finalmente spiccare il volo alla band.

Ma chi è Michelangelo Antonioni nel 1969? Il regista toscano è uno dei più attenti ai nuovi fenomeni giovanili, a dispetto dell’età; Antonioni ha infatti quasi sessanta anni, potrebbe essere il papà, se non un giovane nonno, per i ragazzi che fanno le barricate a Parigi o predicano l’amore libero e l’uso dell’LSD a San Francisco. Eppure la sua mente è aperta e ha già dimostrato con Blow Up di sapersi avvicinare ai nuovi movimenti con curiosità, senza giudicare e circondandosi di giovani creativi. Il film del 1967 è stato un grande successo, garantendo ad Antonioni carta bianca dalla MGM e due nomination agli Oscar. Per Blow Up il regista si è affidato a livello musicale a Herbie Hancock, allora giovane pianista di Miles Davis, con la sola eccezione per la storica scena con gli Yardbirds – nella mitica formazione con Page e Beck – che suonano Stroll On.

Proprio mentre è a Londra per girare Blow Up, Antonioni ha avuto modo di vedere all’opera i primi Pink Floyd, in un pirotecnico live psichedelico alla Roundhouse, accompagnato da Monica Vitti. E mentre è in California per girare Zabriskie Point, nel ’68, la band si trova lì col tour di A Saucerful Of Secrets. I Pink Floyd sono un gruppo di riferimento per la cultura giovanile californiana, tanto che già nelle prime scene del film appare il retro della copertina di A Saucerful Of Secrets, mentre uno dei protagonisti telefona, seduto sul letto.

A Roma i quattro musicisti alloggiano in un hotel di lusso, il Massimo D’Azeglio, ad appena trecento metri dagli International recording studios di via Urbana. Il ricordo di Roger Waters di quel periodo è piuttosto pittoresco e serve a dare l’idea del periodo:

Andammo a Roma e alloggiavamo in un hotel di lusso. Ci svegliavamo regolarmente alle 4 e mezzo del pomeriggio, ci fiondavamo al bar e stavamo lì fin verso le sette quando, barcollando, ci infilavamo al ristorante, dove mangiavamo e bevevamo più o meno un paio d’ore. Dopo una settimana circa delle due programmate, il tipo del ristorante cominciò a cambiare le nostre ordinazioni; noi chiedevamo dei vini assurdi e lui ce ne portava altri, certe bottiglie a prezzi folli.”

Alla boheme della vita nell’albergo di lusso, fa però da contraltare l’impatto tutt’altro che idilliaco col Maestro Antonioni. È ancora Rogers che racconta, in questi spezzoni tratti da Zig Zag, una rivista dell’epoca:

Si cominciava a lavorare alle 9, minuto più minuto meno; lo studio distava pochi minuti a piedi, ci andavamo barcollando. Non c’era molto da fare e avremmo potuto sbrigarci in cinque giorni. C’era Antonioni e noi avevamo preparato dell’ottima musica ma quando la ascoltava, ricordo che aveva un terribile tic, si lanciava regolarmente in commenti tipo: “È beeeeellissssimo ma trooooppo triste” o “È trooooppo forte”. C’erano sempre errori, e non da poco. C’era sempre qualcosa che impediva alla musica di essere perfetta. Qualunque cosa tu cambiassi, non andava bene e lui non era contento. Un inferno, un vero inferno. Antonioni si sedeva ad ascoltare e ogni tanto – spesso – si addormentava. Noi continuavamo a lavorare fino alle sette o alle otto del mattino, tornavamo in albergo per colazione, poi a letto, su alle 4 e mezza e ancora al bar.”

La musica a cui allude Waters in realtà non era costata troppo impegno ai ragazzi, trattandosi per lo più di materiale riarrangiato e rimasticato per l’occasione. Antonioni pretendeva il controllo totale sulla musica, pensava che la band fosse una specie di juke box; sperava che Gilmour e soci si sarebbero messi a suonare mentre scorrevano le immagini del film e le musiche sarebbero venute fuori così, per incanto. Paranoico riguardo al fatto che qualcuno potesse vedere in anteprima spezzoni del film, aveva fatto oscurare completamente le finestre e, per avere più controllo, aveva fatto addirittura piazzare una brandina, in modo da assistere a tutte le session.

All’inizio, entusiasta del lavoro, il gruppo chiese ad Antonioni di poter incidere l’intera colonna sonora del film, e non solo le poche scene che Antonioni voleva affidargli. Per il resto del film, infatti, il regista si era avvalso della consulenza di Don Hall, un celebre disc jokey californiano, estremamente addentro alla musica della controcultura, anche lui presente alle sedute di Roma. Antonioni inizialmente diede il consenso, tuttavia nei giorni l’atmosfera andava esacerbandosi; i continui rifiuti, specie per la cosiddetta Love Scene, non aiutavano. La scena, una sorta di orgia di gruppo girata nella Death Valley, venne musicata dai Pink Floyd in tutte le salse, ma il regista non ne rimase mai soddisfatto. Vennero incisi pezzi di piano, country, perfino un blues di otto minuti con un Gilmour in inedita veste di bluesman – tutti reperibili in rete – ma alla fine non si giunse a niente.

In conclusione, i pezzi dei Pink Floyd scelti da Antonioni furono solo tre: Heart Beat, Pig Meat, una bizzarra composizione che accompagna i titoli di testa, con un tappeto di battito cardiaco realizzato da Mason con dei tape loop e che anni dopo verrà sviluppato per The Dark Side Of The Moon; Crumbling Land, un insolito pezzo dalle atmosfere country, esplicitamente richiesto dal regista e che, secondo Gilmour, avrebbe potuto suonare qualsiasi gruppo americano molto meglio; Come In Number 51, Your Time Is Up che non è altro che una versione della celebre Careful With That Axe, Eugene.

Quest’ultimo pezzo accompagna la scena finale, quella dell’esplosione, ed è forse l’unico pezzo dove la commistione tra musica e immagini funzioni veramente a dovere; è anche l’unico pezzo di cui Antonioni fu veramente convinto. Gli altri pezzi sono confluiti negli anni dapprima in vari bootleg, poi in una versione expanded della colonna sonora, pubblicata dalla Rhino nel 1997.

Tra i pezzi rifiutati dal regista troviamo una vera chicca; si tratta di un brano pianistico realizzato da Richard Wright e che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto accompagnare la scena degli scontri con la polizia. Lo stridente contrasto tra la dolcezza delle note e la violenza delle immagini aveva gran potenziale, ma non convinse Antonioni che decise di lasciare la sequenza senza commento sonoro. The Violent Sequence, questo il titolo provvisorio del brano, anni dopo sarà rielaborato e diverrà la celeberrima Us And Them.

A questo punto rimangono un paio di curiosità. La prima è la famigerata Love Scene, alla fine chi fu a musicarla? La scena, croce e delizia della pellicola, fu un vero enigma per Antonioni. Il resto della colonna sonora fu sistemata coi brani non originali proposti da Don Hall, e fu lo stesso disc jokey – evidentemente più bravo di altri a guadagnarsi la fiducia del regista – a proporre altri nomi. Il primo fu John Fahey, abilissimo e poco conosciuto chitarrista acustico americano, dal carattere non troppo facile e la salute mentale malferma, secondo i più; e fu un vero disastro.

Fahey volò a Roma e dopo estenuanti session riuscì a partorire delle musiche di cui sia lui che Antonioni furono abbastanza soddisfatti. Fino a quando non decisero di festeggiare l’operazione andando a cena. Finalmente rilassato, il Maestro si lasciò andare a pesanti osservazioni sugli Stati Uniti, ritenuti accidiosi, stupidi e supponenti, buco infernale e vero epicentro del male sul pianeta. Fahey, offesissimo, scopre con orrore che Antonioni è anche comunista, cosa evidentemente intollerabile per un americano. A farla breve finisce a pugni, e dallo scontro tra i due estemporanei boxeurs, il giovane John esce vincitore. Della rissa, almeno, visto che i suoi nastri spariranno in qualche angolo nascosto degli studi. Alla fine la scelta per la famosa scena cade dove sarebbe stato naturale cadesse dall’inizio: i Grateful Dead e Jerry Garcia in particolare, che registra senza grossi patemi lo score della Love Scene.

L’altra curiosità è ovviamente sul film in sé e per sé. La pellicola che costò un monte di danari alla MGM e due anni di lavorazione ad Antonioni, per i quali il Maestro rifiutò tra gli altri i contributi di Doors e Rolling Stones (tranne che per You Got The Silver), fu un fiasco senza precedenti. Incassò appena due milioni di dollari, vanificando quasi del tutto il precedente successo di Blow Up. La critica americana, probabilmente offesa per le frecciate alla propria cultura, fu durissima. In Europa piacque di più, ma non a tutti.

Scrisse John Burks su Rolling Stone:

Antonioni ha dichiarato che apprezza tutto dei ragazzi di oggi: “Mi piace tutto quello che fanno, anche i loro sbagli, i loro dubbi”. Anch’io la penso così, ma di Antonioni.”

Lino Micciché, da questa parte dell’Oceano, fu più incoraggiante:

Sfortunati i popoli che hanno paura dei poeti. Rischiano di neppure riconoscerli. Alla maggior parte dei recensori statunitensi di “Zabriskie Point” sembra essere, infatti, totalmente sfuggito che l’ultimo film di Michelangelo Antonioni non è un “pamphlet” contro l’America, ma un “poema” sull’America.

Cinquant’anni dopo, al netto di una certa ingenuità, Zabriskie Point è stato rivalutato, divenendo un vero e proprio cult. In virtù della perfezione visiva e della fotografia di un’epoca tramontata in fretta, certo. Ma soprattutto per la scena dell’esplosione, una feroce e riuscita critica al consumismo che non sarebbe stata così efficace senza le musiche dei Pink Floyd.

Almeno su questo, il vecchio Maestro, ci aveva visto giusto ancora una volta.

— Onda Musicale

Tags: The Doors, The Rolling Stones, Ummagumma, Zabriskie Point, Michelangelo Antonioni, Pink Floyd
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