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10 pezzi rock del 2019 per chi pensa che il rock sia morto

Il rock è morto. O almeno così si va ripetendo ciclicamente da decenni. Da quando Elvis partì per il servizio militare a quando Chuck Berry fu arrestato per sfruttamento della prostituzione.

Dallo scioglimento dei Beatles alla tragedia di Altamont durante un live dei Rolling Stones; con le morti di Jimi Hendrix o di Jim Morrison. E puntualmente il rock ha sempre saputo rinascere dalle proprie ceneri, tanto da essere ancora in vita, con i dovuti aggiornamenti, anche oggi.

Quella che però innegabilmente è cambiata è l’importanza del rock; certo non siamo più di fronte a quella musica rivoluzionaria che smuoveva le coscienze e che – per un periodo limitato – fu veramente in grado di cambiare il mondo; quella musica capace di reinventarsi, proponendo ogni volta qualcosa che non era mai stato sentito prima.

Fu così con la forza primordiale del rock’n’roll, che era una sintesi tra il country dei bianchi e la forza selvaggia del blues dei neri, ma suonava assolutamente come qualcosa di nuovo per il grande pubblico; fu così con i Beatles, che raccolsero il testimone dei teddy boy americani, già in piena parabola discendente, traghettando il rock’n’roll verso la maturità.

Grazie anche al blues revival inglese, l’ingenuo rock degli esordi diventò qualcosa d’altro, una musica tutta nuova e aperta alle sperimentazioni, che diede vita al movimento psichedelico e al rock blues, all’hard rock e all’heavy metal, fino alle estreme conseguenze del prog, una musica colta che prendeva le distanze in modo decisivo dal rock degli inizi, proponendo un balzo in avanti – progressivo, appunto – che includesse tutte le influenze possibili fino alla classica e al jazz. Fu forse il periodo di massima creatività del rock, con vere complesse opere d’arte.

Ma degenerò in fretta, vittima della sua autoreferenzialità, tanto da gettare i semi del punk, un movimento solo in apparenza rivoluzionario e che, anzi, si proponeva di fare tabula rasa di quell’approccio così colto e a volte pomposo, riportando tutto da dove era partito. Il primo grande movimento reazionario del rock, paradossalmente.

Da lì il rock smette di essere rivoluzione e – complici i tempi e i nuovi mezzi di comunicazione – diventa rappresentazione. Dopo i patinati e insipidi anni ’80, tra new wave e insensato pop laccato, l’ultimo rigurgito è il grunge, un movimento che fa quello che aveva fatto il punk vent’anni prima. Da allora si può dire che tutto valga, si va avanti all’insegna della retromania, con la moda del vintage che ripropone atmosfere per tutti i gusti, e il pop commerciale ormai completamente slegato dalle forme del rock.

Quindi sì, il rock è davvero morto, se lo intendiamo come veicolo di trasformazioni epocali e di contenuti musicali nuovi. Tuttavia, se vi interessa solo la musica, esistono decine di artisti e band che ancora si dedicano con artigiana maniacalità a rievocare i suoni del bel tempo che fu, a volte anche riesumando strumentazioni analogiche d’epoca. Proprio tra questi siamo andati a scartabellare, proponendovi dieci pezzi che se fossero usciti nell’epoca d’oro del rock, probabilmente oggi sarebbero capolavori venerati al pari di mostri sacri come Deep Purple, Led Zeppelin e Pink Floyd.

Inizia il viaggio.

10. Ride On My Bike – Rosalie Cunningham

Cantante e frontwoman dei disciolti e ottimi Purson, coi quali si dedicava a un revival rock anni ’70 che omaggiava psichedelia, glam, folk-prog, condendo il tutto con un tocco di teatralità degna dei Queen, Rosalie Cunningham ha esordito con un album eponimo. L’apertura del disco è affidata a questa Ride On My Bike, vero caleidoscopio rock e dichiarazione d’intenti riuscitissima.

9. A Lot’s Gonna Change – Weyes Blood

Titanic Rising è il quarto album di Weyes Blood, moniker dietro cui si cela la bravissima Natalie Mering, giovane fanciulla dalla voce quanto mai duttile ed evocativa. Il suo album è sicuramente in senso assoluto uno dei lavori migliori dell’anno e si ritaglia un posticino anche in questa peculiare Top 10. Natalie è infatti una sincera ammiratrice del suono west coast tanto in voga tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei seventies; quel suono che fece la fortuna di Joni Mitchell e Carly Simon, per dirne un paio.

8. Elemental Haze – Leeds Point

Trio hard rock di Brooklyn che riesce in modo efficace a smussare gli angoli di un suono troppo americano, che a volte finisce per frustrare quel sound tipicamente anni ’70 che pare trovare degni epigoni più dalla nostra parte dell’oceano, specie nel profondo nord. Equinox Blues è il loro lavoro, dove sono distillati riff tra Led Zeppelin e Cream e una vocalità che ricorda Ozzy Osbourne.

7. Stitches – Stereophonics

Attiva dai primi anni del millennio, appena dopo l’ondata brit rock, gli Stereophonics di Kelly Jones – nome, aspetto e soprattutto voce da perfetta rockstar – hanno forse raccolto sempre meno di quanto fosse alla loro portata. Dopo un periodo di appannamento, tornano un po’ a sorpresa con Kind, forse il miglior disco di classic rock dell’anno. Il lavoro dispensa una serie di brani acustici e qualche accelerazione rock, tra Neil Young, Bob Dylan e gli Stones di inizio anni ’70.

6. All Is Lost – Dead Feathers

A cinquant’anni e passa dai fasti dell’ondata psichedelica del rock, i Dead Feathers si prendono in carico l’eredità di band come i Jefferson Airplane e i Grateful Dead, incrociandola col folk di Fairport Convention e Pentangle, con più credibilità di tanti altri. Atmosfere folk e accelerazioni quasi boogie, unite a una spettacolare voce femminile. All Is Lost è il degno paradigma di cotanta nostalgica bellezza.

5. Song For Winners – Nick Waterhouse

Immagine a metà tra il nerd dei film demenziali degli anni ’80 e componente di qualche band inglese beat del ’64, Waterhouse è quanto di più nostalgico possiate immaginare a livello di suoni; ve lo proponiamo nel sontuoso singolo Song for Winners, che incrocia i Them di Van Morrison con le solite influenze beat. L’arrangiamento è davvero perfetto, così come adattissimo è il suono twangy della chitarra; davvero si nota in questo pezzo come il buon Nick possa celarsi dietro alcune produzioni dei sottovalutati Allah-Las.

4. People – Stew

Può sembrare bizzarro, ma è da anni un dato di fatto che le grandi band dedite a riproporre quel sound hard debitore in grande misura a strutture blues e che ha fatto la fortuna di grandi come Led Zeppelin e Black Sabbath, ma anche di degni minori quali Black Cat Bones e Leaf Hound, arrivino quasi sempre dai paesi scandinavi. Così Graveyard e Witchcraft a capeggiare l’ondata, ma anche Brutus e Skanska Mord sugli scudi. Gli Stew non fanno eccezione e contribuiscono a rinverdire i fasti di Clapton, Page e soci con questo bellissimo lavoro.

3. Hombre – Shotgun Sawyer

Ritmi indiavolati, chitarrismo blues rock accelerato all’americana e una certa attitudine redneck à la ZZ Top, nonostante i tre ragazzotti tutti camicie a quadri e riff hard siano nati, cresciuti e pasciuti al sole della California, sono le caratteristiche principali degli Shotgun Sawyer. Hombre è un indiavolato boogie che omaggia gli ZZ Top già nel titolo e sfoggia un andamento tra R.L. Burnside e John Lee Hooker. Imperdibili.

2. Death Valley Blues – Skanska Mord

Blues From The Tombs è il quarto lavoro di questa band svedese di cui è difficile sapere di più e fin dal titolo e dalla grafica della copertina, chiarisce subito i riferimenti. Un blues sepolcrale, condito da atmosfere affini al doom. Le band faro del progetto sono le solite: i mitici November e i loro epigoni nordici, Graveyard, Witchcraft e Brutus. Le radici più lontane affondano però nell’aureo periodo ’67-’74, quando una serie di band d’oltremanica, implementando la lezione hard blues dei Cream, creò quel sound che ancora oggi fa impazzire i nostalgici. Black Sabbath, sicuro, ma soprattutto i primi Free, i Leaf Hound e i misconosciuti – ma fantastici – Black Cat Bones. Prova ne sia la strepitosa cover di questi ultimi, Death Valley Blues, per chi scrive il più bel pezzo slow blues di sempre.

1. I’m Wicked – Twin Temple

Qualcosa è andato storto nel mondo della pop music, se una band coi fiocchi come questi Twin Temple è costretta a sfoggiare un armamentario satanico-grottesco per colpire l’attenzione sonnecchiante degli appassionati, invasi da streaming musicali in ogni dove. Siamo di fronte a una commistione – questa sì, diabolica – tra doo-wop, rock’n’roll degli esordi, blues satanico e voce – quella di Alexandra James – che non fa rimpiangere Amy Winehouse. Il tutto farebbe impazzire uno come Quentin Tarantino. Ma, al di là delle bislacche apparenze, fidatevi, I’m Wicked è forse il più bel pezzo dell’anno e la voce della James veramente da brividi.

— Onda Musicale

Tags: Chuck Berry, The Rolling Stones, The Beatles, Amy Winehouse, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Elvis
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