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Black Sabbath: 50 anni fa iniziava il sabba dell’hard rock

Il 13 febbraio del 1970 è una data spartiacque per la storia di tutto il rock che sarebbe venuto: quel giorno usciva il primo album dei Black Sabbath e, pur con tutti i distinguo del caso, si può dire che lo stesso giorno nascevano l’heavy metal e il doom.

Basta già la prima traccia a indicare la via alla band e a una serie di generazioni di metallari votati a pelle nera, borchie e ammiccamenti al maligno. Black Sabbath, il brano omonimo sia dell’album che del moniker scelto dal gruppo, contiene in sé tutti i prodromi di un genere: l’incedere lento e maestoso della chitarra di Tony Iommi – che si muove su tre note separate da un intervallo di tritono, considerata nel medioevo una caratterista satanica – i suoni del temporale e delle campane che aprono per i primi quaranta secondi il brano, le tematiche oscure ed esoteriche. C’è tutto il doom che verrà, tanto da essere un brano influente e seminale ancora oggi.

Ma da dove arrivavano i Black Sabbath, in quello storico febbraio del 1970? La band nasce nel 1966 dall’incontro tra Iommi, William Ward e Ozzy Osbourne, a cui si unirà in seguito il chitarrista Terence Butler, che passerà poi al basso. I quattro sono di Aston, una cittadina vicina a Birmingham, patria dell’heavy metal, non fosse altro che per le famose acciaierie e per l’ambiente plumbeo e depresso. Dopo una gavetta come Polka Tulka Blues Band, Polka Tulka ed Earth, la folgorazione che dà il via al mito è di Butler. Appassionato di esoterismo e magia nera, si ricorda di un film che ha visto, Black Sabbath, appunto, del maestro dell’horror italiano Mario Bava, e propone il titolo come nome. Quel giorno nasce uno dei miti più consolidati del rock.

Iommi viene temporaneamente assoldato dai Jethro Tull, cosa che gli dà sicurezza visto che è ancora indeciso sull’opportunità di dedicarsi seriamente alla carriera musicale, quando un drammatico evento sembra tagliare le gambe a qualsiasi futuro: Tony – che continua a lavorare in acciaieria – perde parte di due dita della mano destra sotto una pressa e, nell’impossibilità di continuare a suonare, cade nella depressione più cupa. La scoperta di Django Reinhardt – il chitarrista tzigano che suonava la chitarra jazz con sole due dita – e le protesi da lui ideate – fondendo i tappi di Fairy, un detersivo – che gli permettono di suonare anche meglio di prima, lo ricondurranno sulla via del rock.

Si arriva così al 1970 e al loro disco di debutto. La traccia d’apertura, oltre alle componenti demoniache, propone nel finale una furente parte di chitarra dove Iommi sembra anticipare decenni di cliché metal. Un capolavoro visionario che segnerà il genere e con cui tutti dovranno fare i conti.

Seguono The Wizard, con l’armonica suonata da Ozzy e una forte pregnanza blues, che ricorda un po’ le prime cose dei Jethro Tull e Behind The Wall Of Sleep, vagamente zeppeliniana e con Iommi sugli scudi, che prende spunto da alcuni scritti di H.P. Lovecraft, a conferma degli interessi esoterici della band; N.I.B. propone di nuovo liriche ambigue che costeranno accuse di satanismo, mentre musicalmente il brano è contraddistinto da una lunga intro di solo basso e da un riff molto attinente a certe cose dei Cream, per poi risolversi in una cavalcata chitarristica che rende pieno onore a Tony Iommi.

Evil Woman, oscuro brano dei Crow, viene rivisto e corretto con atmosfere che in seguito faranno la fortuna dei Deep Purple; la somiglianza con la quasi coeva Black Night è evidente. L’album si chiude con Sleeping Village, dalle tematiche ancora fortemente esoteriche e con un incrocio tra l’arpeggio folk iniziale e il passaggio ad atmosfere hard interessante ma non del tutto riuscito, e con la sontuosa The Warning dove, dopo la parte cantata dalla solita, particolarissima, miagolante voce di Ozzy, si dipanano lunghi minuti di improvvisazioni strumentali. Il brano è la cover di un misconosciuto – e bellissimo – blues inciso tre anni prima dagli oscuri Aynsley Dunbar Retaliation, in una versione più breve ma forse ancora più suggestiva.

Anche la bella ed evocativa copertina contribuiva a tracciare i contorni della proposta sabbathiana: un’inquietante foto del mulino ad acqua Mapledurham Watermill, situato sul fiume Tamigi a Mapledurham, con in primo piano un’eterea figura femminile che sembra uscita da un racconto di Edgar Allan Poe.

Nonostante oggi sia unanimemente riconosciuto come disco di seminale importanza e il grande successo di pubblico dell’epoca, Black Sabbath venne pressoché stroncato dalla critica e fece scalpore per i contenuti esoterici.

I giornalisti videro nell’opera prima una sorta di scopiazzatura di Cream e Led Zeppelin, condita da testi che cercavano il macabro solo per far parlare di sé. Lester Bangs descrisse così il lavoro: “nonostante dei titoli tenebrosi e qualche testo vuoto che ricorda un omaggio malfatto dei Vanilla Fudge ad Aleister Crowley, l’album non ha nulla a che vedere con lo spiritismo, l’occulto e qualsiasi altra cosa, eccetto delle legnose litanie dei cliché dei Cream”.

The Village Voice, altra testata dell’epoca, lo etichettò addirittura come il peggio della controcultura. Successivamente la critica ha aggiustato il tiro, riconoscendo la grande carica innovativa e l’indubbia importanza storica al lavoro.

Cinquant’anni dopo Black Sabbath è un disco che pur non avendo certo mantenuto una grande freschezza – il suo suono è la perfetta fotografia del tempo – è ancora preso a esempio e ispirazione da chiunque si voglia cimentare nel genere. I Black Sabbath avranno tempo di fare meglio, già lo stesso anno con Paranoid, il loro più grande successo, ma certe intuizioni sanno già di capolavoro in questo primo episodio.

Basta ascoltare la lunga The Warning o le atmosfere malate della title track per provare ancora oggi un brivido lungo la schiena.

  Andrea La Rovere – Onda Musicale

— Onda Musicale

Tags: Ozzy Osbourne, Black Sabbath, Tony Iommi, Cream, Jethro Tull, Led Zeppelin
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