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The Who: dare lezioni di rock a 75 anni

A tredici anni di distanza dal precedente “Endless Wire”, sono tornati gli Who, con l’album dal titolo eponimo uscito a dicembre.

Va detto che il lungo periodo non è nemmeno il maggiore nella discografia della band inglese: tra It’s Hard e lo stesso Endless Wire c’era infatti stato addirittura uno iato di ben 24 anni. Pete Townshend e Roger Daltrey – due vere leggende viventi del rock – sono ciò che rimane della gloriosa formazione originale; a dare man forte ai due troviamo principalmente Pino Palladino al basso e Zak Starkey, figlio di Ringo Starr, alla batteria.

Preceduto come al solito da anticipazioni o troppo ottimistiche – “il miglior disco dai tempi di Quadrophenia” ha dichiarato improvvidamente Daltrey – o cupamente pessimiste, specie sull’opportunità di continuare a rockeggiare oltre i settant’anni, The Who si pone più dalla parte dei primi; si tratta infatti di un buon disco, per il quale ovviamente non si possono scomodare – non sarebbe nemmeno giusto – i capolavori del tempo che fu, ma comunque un lavoro godibile dalla prima all’ultima traccia.

Tutti siamo d’accordo sul fatto che i grandi lavori degli esordi e le loro seminali opere rock rimarranno nella storia del genere, intoccabili e irraggiungibili; ed è giusto che sia così. Siamo a più di cinquant’anni da quella che è stata un’era completamente diversa, l’epoca d’oro del rock, e inoltre sarebbe sciocco pretendere quel furore, quell’incredibile creatività, da dei signori milionari che si avviano verso gli ottant’anni. Ingiusto è anche l’atteggiamento diffuso tra molti nostalgici fan, che spesso non vedono di buon occhio i nuovi lavori e preferirebbero che i loro paladini rimanessero per sempre cristallizzati nella ripetizione dei soliti cliché.

The Who è un album di oggi, saldamente ancorato nel suono alle radici della band, ma che vuole – e può – dire la sua anche nel panorama, per la verità un po’ asfittico, del rock odierno. Il lavoro è registrato senza troppi fronzoli e concessioni alle nuove tecnologie – anche se in un paio di tracce spunta un discutibile autotune – ma evita anche il tranello del suonare troppo analogico e forzatamente vintage. Ne viene fuori una giusta via di mezzo un po’ in tutto, cosa che non sempre è un bene.

Non c’è nessun tema, nessun concept, nessuna storia, solo una serie di canzoni che io e mio fratello Simon abbiamo scritto per dare a Roger Daltrey la giusta ispirazione per far rendere al meglio la sua voce” – ha dichiarato Townshend. “Roger ed io siamo entrambi vecchi ormai, quindi ho cercato di stare lontano dal romanticismo e dalla nostalgia, se possibile. Non volevo mettere a disagio nessuno. I ricordi vanno bene, ma alcune canzoni si riferiscono alle cose di oggi”.

Ed ecco allora l’apertura di All This Music Must Fade; il suono, fin dalle prime note, è quello riconoscibilissimo degli Who, la melodia riecheggia la mitica The Kids Are Alright, e Daltrey che urla di sapere che “odieremo questa canzone” traccia bene l’insofferenza verso l’accoglienza dell’album. Secondo quanto dichiarato da Townshend, lui e Roger hanno registrato in momenti diversi, senza mai incontrarsi in studio, forse la più grande concessione alle tecnologie moderne.

Avrei voluto vederlo qualche volta in studio, sentire che cosa pensava di un brano, accoglierne i dubbi, ma non l’ha mai fatto”ha appunto detto Pete.

Lui sta bene in studio, io sto bene sul palco. Alla testa preferisco il cuore”ha ricordato Roger, da grande performer qual è sempre stato.

Il disco va avanti con Ball And Chain, forse il pezzo più bello e sorprendente del lavoro; strutturato come un blues nel testo, propone un arrangiamento molto ricercato e stratificato – caratteristica comune a tutto l’album – e una prestazione vocale di Daltrey che fa impallidire molti giovani rocker. E proprio questo è il punto: se un lavoro del genere arrivasse da qualche sconosciuta band esordiente, probabilmente verrebbe etichettato senza problemi come il disco dell’anno; sapendo che invece arriva dagli Who, il giudizio è inevitabilmente condizionato.

Si va avanti ancora alla grande con I Don’t Wanna Get Wise che – nella dichiarazione programmatica – fa pensare alla seminale My Generation, mentre la frenetica Detour propone un bel ritmo rock’n’roll degno di Bo Diddley. La partenza del disco è dunque su livelli altissimi, tanto che è inevitabile che sia seguito da un leggero calo di tensione.

The Who è sostanzialmente il disco che prende atto dell’ingresso nella terza età dei due protagonisti e I’ll Be Back – sullo scivoloso tema della reincarnazione – ne è la prova provata: un pezzo di chiara matrice pop, l’unico cantato da Pete Townshend, riuscito a metà.

Break The News è una bella ballata che si trasforma in un vigoroso pezzo rock, mentre interessanti sono anche le tre bonus track. In special modo la bella Nothing To Prove che, nonostante il titolo la faccia pensare attuale, è una demo degli anni ’60, che reca in sé tutto il fascino dell’epoca, e si perdoni chi scrive se la considera l’episodio più piacevole, mentre Danny And The Ponies è una sorta di ballata folk interamente suonata e cantata da Pete.

Insomma, considerando la scarna discografia della band – appena 12 album in studio – e la lunga inattività, questo nuovo lavoro non sarà il meglio dopo Quadrophenia, ma è sicuramente la più valida prova in studio fin dagli anni ’70; un lavoro di classic rock capace di suonare senza tempo, pur senza ricorrere ad astuti trucchi che fanno leva sulla nostalgia.

— Onda Musicale

Tags: The Who, Pete Townshend, Roger Daltrey, Zak Starkey, My Generation
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