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“Sounds that nobody else has done yet”: i Beatles, Revolver e la rivoluzione musicale del 1966 [Parte Seconda]

Dalle innovazioni tecnologiche inerenti il processo di registrazione, spostiamoci ora a considerare il disco sotto il profilo compositivo e tematico.

Già nel caso di Pet Sounds, capolavoro dei Beach Boys anch’esso del 1966, avevo messo in evidenza come in quell’anno la musica avesse perso quella spensieratezza giovanile largamente presente nelle canzoni della prima metà del decennio. I baby boomers erano adulti, l’ingenuità di un amore tutto rose e fiori aveva ceduto il posto a riflessioni filosofiche sulla morte e la vita dopo di essa, come nel caso dell’ipnotica chiusa del disco, composizione ispirata – in tutto o in parte – al Libro Tibetano dei Morti (giusto per dare una seppur vaga idea del cambio di rotta all’interno della musica pop).

Spostando lo sguardo verso le altre canzoni, notiamo come nel brano di apertura,“Taxman”, Harrison denunci in maniera graffiante la tassazione che gli artisti devono subire dal governo del primo ministro Wilson. La scelta di dare spazio alla critica sociale avvicina questo brano ad analoghe caustiche satire a firma Ray Davies.

Nella celeberrima “Eleanor Rigby” (pubblicata come singolo insieme a “Yellow Submarine”), la protagonista femminile – nome reale, dato che compare su una delle lapidi del cimitero di Liverpool – viene immaginata da McCartney calata in un’esistenza triste che non riesce a disfarsi della solitudine nemmeno dopo la morte, dato che al funerale della donna vi prende parte solamente Padre McKenzie, il sacerdote. Il brano si caratterizza per il fatto che la melodia è costruita esclusivamente sull’arrangiamento di George Martin per un ottetto di archi (in “Yesterday” invece l’arrangiamento prevede anche una chitarra). Eleanor è “parente” di quella Emily cantata dagli Zombies nel 1967.

Con “Love You To”, la cultura indiana – scoperta da Harrison nel 1965 e gradualmente abbracciata – fa la sua esplicita comparsa all’interno del mondo musicale beatlesiano, dopo il fugace accenno in “Norwegian Wood” (un sitar). L’adozione di strumenti, metriche e ritmi del paese del Gange non è un semplice abito con cui vestire una canzone occidentale, ma serve a veicolare delle riflessioni non banali sulla fugacità dell’esistenza e l’importanza di dedicarla all’amore (e non alle cose futili). L’interesse di Harrison per la Cultura Indiana era musicale ma soprattutto filosofico-spirituale, diversamente da tanti altri coetanei guadagnati alla moda del momento.

“Here, There and Everywhere”è una dolce e soffusa ballata d’amore. In essa chiara è la firma del suo autore, Paul McCartney. Nel testo l’autore lo dice chiaramente: to lead a better life I need my love to be here”. L’amore, intessuto di piccoli gesti, si sublima in una dimensione eterna, pur essendo fortemente ancorato al presente, all’hic et nunc (“qui e ora”). Sempre a firma McCartney è l’altra composizione “Good Day Sunshine”, dove l’ottimismo per la situazione vissuta dal protagonista – un amore appena nato – esplode nel ritmo leggero del pianoforte da vaudeville. La vita bisogna prenderla con leggerezza!

Aristocraticamente malinconica e posata è l’atmosfera in cui si colloca il racconto di un amore finito, quello che McCartney tratteggia in “For No One”, le cui sonorità – date da clavicordo e corno francese sembrano precorrere quelle che lo stesso musicista creerà in“Penny Lane” (sul finire dello stesso anno).

In “Doctor Robert”, creazione che porta l’impronta di John Lennon, il musicista dipinge il ritratto di un dottore (non meglio specificato) i cui pazienti gli sono grati perché lui li fa stare bene con vitamine e soprattutto anfetamine. Nel testo della canzone la droga non è mai menzionata esplicitamente (sennò il brano sarebbe stato bandito dalle radio), ma vi si allude in maniera lampante. L’arrangiamento rock del brano è interrotto dal coro ambiguamente angelico dei pazienti che il Dottore ha fatto stare bene. La sua identità è sfuggente, ma i critici musicali hanno ipotizzato trattarsi di Robert Freymann, medico newyorkese di clienti facoltosi.

“I Want To Tell You”è un altro capolavoro nato dalla penna di Harrison, il quale inizia a dimostrare compiutamente le proprie indiscusse capacità di compositore. Anche in questo caso si sente una chiara e limpida influenza della musica indiana, soprattutto nel refrain “I’ve got time”. Il testo cerca di tradurre in parole proprio l’incapacità di esprimerle, quando i pensieri affollano caoticamente la testa.

“Got To Get Into My Life”, poco prima dell’ipnotica chiusura del disco, veicola con lo stile Motown una dichiarazione d’amore. Ma non per una donna, come si potrebbe pensare. La canzone celebra il piacere di un pot, termine slang per indicare una canna.

Avviandoci verso la conclusione, possiamo tirare le somme del discorso fatto: il disco, che trovò il proprio titolo definitivo a Luglio, quando i Beatles lo comunicarono via telegramma da Tokyo, uscì nel Regno Unito il 5 Agosto 1966 – una settimana prima che iniziassero le date americane a conclusione del tour mondiale – e conquistò immediatamente sia i fan che i musicisti, per via delle proprie canzoni, del proprio sound e, non da ultimo, per via dell’inconfondibile copertina – un misto di collage e disegni a china – realizzata da Klaus Voormann, amico dei Beatles sin dai tempi di Amburgo, tempi che in quell’estate così gioiosa ed ottimista sembravano lontani anni luce.

— Onda Musicale

Tags: The Beatles, Paul McCartney, Liverpool, George Harrison, Penny Lane, Zombies, Taxman, John Lennon
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