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The Alan Parsons Project: intervista all’autore del libro “L’occhio nel cielo”

Francesco Ferrua, architetto con la passione per la musica e in particolare per quella di The Alan Parsons Project, scopre il "progetto di Alan Parsons" casualmente nel 1992, all'età di 14 anni.

Ferrua realizza un saggio eccellente, esauriente, documentato e interessante. Primo libro in assoluto sull’argomento, “L’occhio nel cielo” deve il suo titolo alla famosa copertina di “Eye in the sky” realizzata dal grande Storm Thorgerson, disegnatore di quasi tutte le copertine dei Pink Floyd, e ancor prima al relativo celebre album uscito nel 1982 (vagamente ammiccante all’omonimo romanzo di Philip K. Dick), il più venduto del gruppo e quello che ha decretato l’assoluta bravura di Alan Parsons ed Eric Woolfson, artisti – coadiuvati da eccezionali musicisti e vocalist – dotati di enorme creatività e stile che hanno fatto del ‘concept album’ una scelta vincente.

La storia della band inglese è dunque illustrata attraverso notizie esclusive, interviste e approfondimenti, con citazioni e appendici finali, nonché attraverso la scansione critica dei loro album e dei temi affrontati, quasi tutti incentrati su argomenti di ispirazione storico-letteraria e artistica: da Edgar Allan Poe a Isaac Asimov, dal mistero delle piramidi al gioco d’azzardo, da Antonio Gaudi a  Sigmund Freud.

Un libro autorevole e accattivante che spazia anche in vari ambiti collegati all’attività della band, includendo gruppi vicinissimi per ispirazione e collaborazione come i Pink Floyd, i Camel, i Pilot, Al Stewart e tanti altri.

Abbiamo contattato l'autore di questo libro e gli abbiamo rivolto alcune domande.

 

Quando nasce la tua passione per la musica?

"Devo dire che in casa mia c’è sempre stata una certa passione per la musica, grazie soprattutto a mio padre e mio zio. Sono stato bambino negli anni Ottanta, anni in cui si aspettava che in radio passassero le canzoni preferite per schiacciare “rec” e registrarle su cassetta. Ancora conservo decine di cassette, che oggi rappresentano un interessante spaccato di quel decennio. Mio padre suonava la chitarra e ho bellissimi ricordi di me bambino seduto al suo fianco sul lettone matrimoniale, lui a suonare ed io a cantare. Così sono stato esposto fin da piccolo ad un ampio panorama musicale che spaziava da artisti e band internazionali – come Pink Floyd, Santana o Clapton – al cantautorato italiano, senza disdegnare nemmeno standard blues e jazz. Da mio zio ho assorbito l’amore per i Beatles che per me, all’età di dodici anni, ha rappresentato la prima vera passione musicale consapevole."

Raccontaci del tuo “incontro” con la musica di Alan Parsons e della conseguente grande passione che esso ha generato

"Alan Parsons è stato per me un perfetto sconosciuto fino alla primavera del 1992, quando avevo  quattordici anni non ancora compiuti. All’epoca mio zio stava acquistando una di quelle collane musicali in CD, con pubblicazione settimanale, che in quel periodo erano tanto in voga nelle edicole; si trattava de “Il Grande Rock De Agostini”. Mio zio mi imprestava sempre ogni Cd di quella collana che per me ha rappresentato un bagaglio musicale inestimabile, permettendomi di fare la conoscenza di molti artisti che sarebbero poi rimasti nella mia vita. Tra questi i miei tre miti musicali in assoluto: Vangelis, Andreas Vollenweider e Alan Parsons col suo Project. Si trattava dell’album Tales Of Mystery And Imagination Edgar Allan Poe e  fu amore a primo ascolto! Non avevo mai sentito nulla di simile, una musica sapientemente calibrata tra melodia e ricercatezza, con stratificazioni sonore inaudite e una carica cinematica unica. Per me – adolescente alla ricerca di una identità e pronto ad assorbire come una spugna gli influssi artistici nei quali riuscivo a vedermi riflesso – fu come aver scoperto un mondo nuovo capace di stimolare le mie fantasie ed accompagnarmi in un viaggio alla ricerca di me stesso. Da quel momento in avanti, passo dopo passo e non senza fatica, sono riuscito a trovare sempre nuove informazioni su quel fantomatico Project che nessuno sembrava conoscere, tantomeno i miei coetanei. Dai miei amici venivo visto come una sorta di alieno: mi stimavano per la mia tenacia ma non riuscivano a condividere i miei gusti musicali. Sarebbe troppo lungo elencarti ora tutte le tappe di questa grande passione, ma se adesso sei qui ad intervistarmi come autore del primo libro al mondo sull’Alan Parsons Project significa che il viaggio che ho percorso in questi venticinque anni è stato, se non altro, ricco di soddisfazioni."

Come definiresti il tuo libro “L’occhio nel cielo”?

"Trovo difficile dare una risposta univoca a questa domanda ma, se proprio dovessi scegliere un termine soltanto, allora userei la parola sogno. Non solo perché vederlo realizzato è stato per me la realizzazione di un sogno personale che ancora oggi non mi sembra vero aver tramutato in realtà, ma anche perché moltissimi appassionati mi hanno detto che nello scrivere il libro ho realizzato quello che anche per loro era stato – per oltre trent’anni – soltanto un sogno.  L’Alan Parsons Project è stata una band che ha sempre giocato sul basso profilo d’immagine, evitando concerti, apparizioni televisive e videoclip, attorniata da un tale alone di mistero e misticismo che nel corso dei decenni ha fatto sviluppare nei fan una vera fame di conoscenza che andava finalmente sfamata. In termini meno poetici e più concreti, direi che il mio libro è il racconto –  approfondito e appassionato –  dell’affascinante storia di un tassello musicale che nessuno aveva ancora narrato. Un racconto che fa perno sulle dichiarazioni degli stessi protagonisti, grazie ad un accurato lavoro di ricerca nel vasto corpo delle interviste rilasciate in quasi cinquant’anni di attività artistica – interviste selezionate e cucite assieme per dare alla narrazione un punto di vista che sia il più interno e diretto possibile. Un racconto che, per tenere vivo l’interesse del lettore attraverso una mole enorme di informazioni, ho voluto strutturare quasi come fosse un romanzo giallo con due principali protagonisti che portano i nomi di Alan Parsons ed Eric Woolfson. Di capitolo in capitolo, il lettore ha modo di aggiungere sempre maggiori tasselli a questa singolare avventura musicale, legandosi sempre più ai suoi protagonisti col desiderio di conoscere la successiva mossa di questa straordinaria band. Perlomeno, queste erano le mie intenzioni nel decidere quale taglio narrativo dare al libro, e a giudicare dai commenti dei lettori sembra che io sia riuscito nell’intento. Per contro, le due appendici in chiusura del libro sono proposte come una sorta di manuale pratico sulla vasta discografia parsoniana e woolfsoniana."

Il libro fa un evidente riferimento alla celebre “Eye in the Sky” ed alla sua copertina disegnata da Storm Thorgerson. Che cosa pensi di colui che possiamo definire il più grande realizzatore di copertine della storia?

"Storm è stato un vero genio visionario, mi spiace non essere riuscito ad incontrarlo e intervistarlo. Attraverso le sue copertine ci ha offerto una prospettiva nuova – magica e fuori dal comune – per vedere al di là delle note e delle parole contenute nei solchi del vinile. Un René Magritte in chiave fotografica, capace di aggiungere spessore alla musica e regalare ulteriori visioni alla mente dell’ascoltatore."

Ricordi la prima volta che hai incontrato Alan Parsons? Che esperienza è stata?

"Potrei forse averla dimenticata? Era il 25 maggio del 1998, Alan suonava al Propaganda di Milano per l’On Air tour, il primo a toccare finalmente anche il nostro Paese. Ero lì con mio padre e con l’amico Alessandro Palmigiani e sapevo che grazie al fan club ufficiale internazionale, al quale ero iscritto, avrei potuto incontrare Alan e la band dopo il concerto. Ma il destino volle farmelo incontrare già alcune ore prima, quando nel tardo pomeriggio, davanti al Propaganda –  dove da poco era finito il sound-check – vedo Alan passare in strada con disinvoltura, intento probabilmente ad allontanarsi per la cena tra gli sguardi di alcuni fan, increduli nel trovarsi a pochi metri da quel gigante di nome Alan. Non riuscii a trattenermi, gli andai incontro con grande slancio dicendogli che ero un fan iscritto a The Avenue, il fan club ufficiale, e cercai di posare al suo fianco mentre mio padre scattava alcune foto; con me c’era anche Alessandro. Al momento non ci abbiamo fatto caso, ma una volta sviluppate le foto – sì, ai tempi si sviluppavano ancora le foto –  è stato divertente notare come ci ritraessero con Alan sulle strisce pedonali di fronte al Propaganda. Una sorta di Abbey Road nostrana! Fu un’esperienza fugace ma molto intensa, che fece da preambolo ad un bellissimo concerto e ad un più concreto incontro nell’after-show. Il primo di tanti, ma ancora oggi trovarmi faccia a faccia con Parsons è un’esperienza che mi mette grande emozione e soggezione – ha una tale aura di misticismo che incute reverenza."

Alan Parsons è stato il tecnico del suono di “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd. Che cosa ne pensi di quello storico disco?

"Lo considero un capolavoro, a mio modesto parere il miglior album dei Pink Floyd e quello che più assomiglia allo stile che, pochi anni più tardi, avrebbe contraddistinto buona parte dei migliori album del Project. The Dark Side Of The Moon è un disco che risente enormemente della mano e del gusto di Alan Parsons. Credo che abbia segnato la maturità artistica della band e che abbia forgiato quello che poi, negli anni, sarebbe stato ricordato come il tipico sound floydiano, un sound che in fondo potrebbe essere definito anche parsoniano. Nonostante le poco cordiali affermazioni di David Gilmour – secondo le quali quel disco avrebbe potuto essere registrato da qualsiasi altro ingegnere del suono arrivando allo stesso risultato finale – ritengo che Alan Parsons abbia avuto un ruolo fondamentale nella resa finale del disco. Se da un lato, col suo Project, Alan ha messo a frutto le esperienze maturate nel corso degli anni di lavoro come tecnico interno agli Abbey Road Studios a fianco di artisti quali gli stessi Pink Floyd, dall’altro credo che questi debbano non poco a Parsons nella definizione del proprio sound."

Alan ha contribuito alla realizzazione di importantissimi progetti musicali di autentiche icone della musica internazionale come Beatles, Pink Floyd, Paul McCartney, Al Stewart, John Miles e molti altri. Tu che hai avuto la fortuna di incontralo più volte come lo descriveresti?

"Uno straordinario finalizzatore –  come lo definì una volta il mio amico e fan del Project Lorenzo Zencher –  di gran gusto e altissime abilità tecniche. Oppure un regista discografico dal tocco d’oro, come lui ama definire il ruolo del produttore. Nonostante Alan non abbia mai brillato come compositore o musicista, è stato ugualmente capace di dare un forte apporto creativo alla musica sulla quale ha messo mano, sia in termini di produzione artistica che di registrazione sonora. È riuscito a far splendere al massimo gli artisti con i quali ha lavorato, tirando fuori tutto il loro potenziale e lasciando spesso il suo forte segno distintivo."

L’incontro fra Parsons e Woolfson, avvenuto nel 1975, ha generato uno dei progetti musicali più esclusivi e significativi della storia del progressive rock. Che cosa rappresenta il “progetto di Alan Parsons” per te?

"Forse non esagero se ti rispondo che rappresenta uno specchio della mia stessa esistenza. Essermi imbattuto in una musica di questo tipo in età adolescenziale ha significato "affibbiarle" un valore ben maggiore di quello di semplice musica, arrivando a rappresentare per me una guida e un aiuto inestimabile. Se pensi all’enorme bagaglio culturale che si cela nei testi e nelle tematiche trattate nei loro album – Edgar Allan Poe, Isaac Asimov, Philip K. Dick, George Orwell, l’antico Egitto, Antoni Gaudì, Sigmund Freud e molto altro ancora – non esagero se dico che per me il Project è stato una vera e propria scuola di vita. I testi a doppio piano di lettura, dove spesso la tematica dichiarata è soltanto una facciata che nasconde un secondo significato più intimo e personale, mi hanno permesso di riflettere e percorrere un viaggio interiore alla ricerca di me stesso e dei miei sentimenti più profondi. E l’aspetto prettamente musicale, i brani strumentali in modo particolare, continua a regalarmi visioni ad occhi aperti. In fondo, non fu proprio Poe a dire coloro che sognano di giorno sanno molte cose che sfuggono a chi sogna soltanto di notte?"

Che progetti hai per il futuro?

"Per prima cosa, diventare papà e dare il benvenuto a mio figlio Paolo, atteso a brevissimo! Sul piano della musica e della scrittura, purtroppo la mia professione è tutt’altra e trovare il tempo e le energie per queste passioni diventa sempre più difficile. Sono felicissimo di essere riuscito nell’impresa di vedere il mio libro tradotto in lingua inglese per il mercato internazionale – pubblicato sempre da Arcana lo scorso dicembre – grazie anche ad un progetto di crowdfunding, da me gestito in completa autonomia, che ha visto il supporto di moltissimi fan da tutto il mondo. Non mi mancano  nuove idee e credo che l’enorme potenziale artistico-culturale che si cela nel mondo del Project possa fare da base per ulteriori lavori. Ad esempio, ho già scritto il canovaccio di quello che potrebbe essere un musical teatrale incentrato sulle musiche alle quali Parsons ha messo mano, ma la vita detta le sue priorità e non sempre si riesce a trasformare in realtà le proprie fantasie. Ma indubbiamente non smetterò mai di sognare anche di giorno!"

 

Stefano Leto – Onda Musicale

 

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Tags: Vangelis, David Gilmour, Abbey Road, George Orwell, The Dark Side of the Moon, Storm Thorgerson, The Alan Parsons Project, Eric Woolfson, Pink Floyd
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