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Bobby Watson: “Made in America” è un disco da non perdere

Uno dei jazzisti americani più amati nel nostro Paese approda alla Smoke Sessions, label club newyorkese che sta convogliando in un catalogo il meglio di quanto offra la scena contemporanea, rimettendo in circolo artisti che dimostrano di avere ancora molto da dire.

Un Bobby Watson così brillante, in effetti, non lo si sentiva dai tempi in cui con la milanese Red Records incideva i suoi capolavori. Uno dei jazzisti americani più amati nel nostro Paese approda, quasi naturalmente, alla Smoke Sessions, label club newyorkese che sta convogliando in un catalogo il meglio di quanto offra la scena contemporanea, rimettendo in circolo artisti che dimostrano coi fatti di avere ancora molto da dire. 

Un Bobby Watson così brillante, in effetti, non lo si sentiva dai tempi in cui con la milanese Red Records incideva i suoi capolavori (“Appointment In Milano”, “Love Remains”, “Quiet As It’s Kept”) e speriamo che in questa nuova casa Bobby possa trovare il nido ideale. 

Ci mancava il suo eloquio solare, il suo rilassato e torrenziale fraseggio, il suo positive thinking che qui lascia spazio anche a soluzioni tensive, blues fino al midollo. Le undici tracce di “Made In America” sono importanti anche perché ripropongono un jazzista dal valore assoluto che ormai pensavamo di segnalare a “Chi L’Ha Visto” ovvero il pianista Stephen Scott, che rientra e lascia profondamente il segno (“The GOAT”, “The Computer Scientist”). 

Il contralto di Kansas City, nell’ideale dimensione del quartetto, licenzia quello che potremmo considerare un concept-album, una riflessione storica che mette in luce l’enorme contributo afroamericano alla storia della nazione, in cui le composizioni sono dedicate a nomi celebri in ambito musicale (Sammy Davis Jr., Grant Green) o a figure oscure, in ambito politico, sportivo o scientifico, una galleria di personaggi che meriterebbero una fitta serie di note a piè di pagina (Isaac Murphy, Major Taylor, Bass Reeves, Mark Dean…), e che hanno ispirato Watson per trarne racconti musicali idealmente rivolti alle giovani generazioni, un invito sociale concreto e vibrante. 

Curtis Lundy, fedele sodale di Bobby è il monumentale bassista, mentre il poliedrico Lewis Nash sostituisce Victor Lewis e siede ai membranofoni con la classe che ognuno gli riconosce. 

Disco da non perdere.

(tratto da http://www.traccedijazz.it)

 

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