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Recensione: “Dangerous Man” di Edoardo Pasteur

Edoardo Pasteur, detto Dado, è un cantautore genovese alle prese con il suo album d’esordio dal titolo Dangerous Man che oggi mi trovo tra le mani.

Particolarmente interessante la scelta della lingua inglese e per il fatto che Pasteur stesso sia stato un maratoneta, quindi uno che di sfide e di tenacia se ne intende, ma vediamo subito il disco realizzato assieme ai musicisti Luca Borriello, Giacomo Caliolo, Toni Colucci, Pino Di Stadio, Stefano Molinari e Marco Biggi al mixaggio e mastering:

Big Fish: un riff di chitarra che non lascia scampa, in pieno stile Carlos Santana, lascia che la voce di Pasteur diventi quella di Edward Bloom, il protagonista dell’omonimo e stupendo film di Tim Burton nel quale un padre in fin di vita racconta al figlio William (Billy Crudup) le sue incredibili storie.

La canzone è un fantastico blues rock con la chitarra, ora elettrica ora acustica, in primo piano che, in alcuni passaggi, ricorda anche il miglior Bob Dylan mischiandosi con un tappeto sonoro di tutto rispetto.

Dangerous Man: rimaniamo ancora in tema di citazioni da libri e film con il rimando al romanzo autobiografico I sette pilastri della saggezza di T. E. Lawrence dal quale è stato tratto l’epico film Lawrence d’Arabia.

Le atmosfere sono più intime anche se sotto i tintinnii ed il wah wah delle elettriche e lo strumming dell’acustica si sente ribollire il desiderio di libertà che ha animato la vita di personaggi come il tenente colonnello Lawrence al pari di altri visionari e sognatori che hanno vissuto al massimo. Stay away, he’s a dreamer.

Brothers (Paris, 13th November 2015): il pianoforte prende il primo posto mentre una delicata chitarra tesse la sua linea acustica in sottofondo per una canzone dedicata alle vittime del Bataclan.

Devo dire che mi ha ricordato molto Brothers in Arms dei Dire Straits, sarà per il titolo o la sonorità, ma si avverte comunque tutto il dolore e la tristezza per un atto di violenza inaudito in cui sono sempre gli innocenti a rimetterci. Da ascoltare rigorosamente in silenzio volgendo un pensiero a quel terribile giorno.

Fire (Prometeus Song): di stampo decisamente più folkloristico il brano cita addirittura la mitologia greca con la mirabolante impresa di Prometeo, colui che rubò il fuoco agli Dei per portarlo agli uomini, finendo incatenato ad una roccia con un’aquila che ogni giorno gli divora il fegato anche se venne poi liberato.

Le atmosfere, al pari del testo, sono veramente sognanti e si perdono nelle nebbie del tempo. Il tempo in cui gli Dei camminavano sulla Terra assieme agli uomini.

Let It Rain: delicati strumming acustici e tintinnii come fredde gocce di pioggia, costituiscono le basi di questa intensa ballad nella quale la voce di Pasteur si fonde perfettamente con quella femminile.

Quest’ultima voce è poi protagonista di un piccolo assolo, seguirà quello di chitarra, che vi farà venire letteralmente la pelle d’oca da quanto è bello e carico di pathos ed emozioni!

Princess Gaze: chitarre acustiche e cornamuse fanno volare la mente sulle verdi Highlands scozzesi in un tempo che fu. Qui si narra di una canzone d’amore così potente da poter spezzare un incantesimo. Molto molto interessante e coinvolgente soprattutto per le atmosfere medievaleggianti!

The Runaway Train: da non confondere con la triste ballata dei Soul Asylum anche se è comunque vero che questo sentimento pervade gli animi delle due persone coinvolte. Un appuntamento sul fiume per darsi l’ultimo bacio prima di partire sul treno.

Andare via tra i rimpianti e le incertezze, credo che a tutti sia successo almeno una volta nella vita, e l’assolo che accompagna il tutto.

Hey Hey You (The Warriors): chiaramente ispirato al film I guerrieri della notte di Walter Hill, tratto dal romanzo di Sol Yurick, questo brano folkeggiante con tanto di slide blues sembra scritto da Dylan in persona e racconta la storia della fuga di una gang giovanile in quella giungla d’asfalto e persone che è New York di notte. Da non perdere soprattutto i cori del ritornello!

Come Sit By My Fire: qui le atmosfere sono più vicine al jazz ed alla world music con uno spettacolare gioco di canto e controcanto per una struggente dichiarazione d’amore. Parole che si susseguono l’una all’altra inanellandosi in una catena che legherà indissolubilmente due persone.

Whatever It Takes: epica e sognante questa canzone riprende il tema già visto in precedenza dei sognatori che si battono per i loro ideali e vanno sempre avanti verso la meta.

I Got A Name: potenti ed arroganti possono portare via molte cose, ma non la nostra identità ed i nostri sogni. Ascoltatela a tutto volume e prendete coscienza della vostra unicità in quanto esseri umani e non meri numeri senza nome e colore!

Carry the Fire (The Road): una ballata rock come si deve ispirata al romanzo apocalittico La strada dello scrittore Cormac McCarthy. Seguiamo dunque i passi del padre e del figlio in un’America desolata. PS no, non cita l’ultimo disco di Robert Plant.

Child of the Storm: brano finale impreziosito dalla stupenda voce di EleNina Barberis e da un Pasteur ispiratissimo dal compianto Leonard Cohen. Una vera e propria chicca per chiudere l’album in bellezza!

In conclusione che dire di questo disco? È un album veramente interessante e che riporta alla mente, oltre ai tanti film e libri, più scuole di cantautorato americano, e non solo, classico. Ottimi sia gli arrangiamenti, che spaziano dal folk all’elettrico, che i testi. Una poesia lunga tredici pezzi che non stanca mai.

 

Vanni Versini – Onda Musicale

 

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Tags: Leonard Cohen, Bob Dylan, Tim Burton, Robert Plant, Carlos Santana, Bataclan, Vanni Versini, Brothers in Arms
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