Recensioni e Interviste

Peter Hammill: recensione di PH7

Alcuni autori sono da sempre difficilmente collocabili in una o in un’altra corrente musicale. I teorici delle etichette, complottisti per natura, hanno particolare, morbosa attitudine nell’attribuire qualsivoglia corrente a questo o a quell’altro autore, a questo o a quell’altro disco.

Posso capire alcune difficoltà di “piazzamento” in tempo reale, ma sono anche straconvinto dell’estrema facilità e leggerezza con la quale le etichette vengono sparate a posteriori. Hammill ha avuto dalla natura un dono immenso: la capacità di cantare qualsiasi cosa nel modo più splendido immaginabile, questa sua versatilità lo ha reso bersaglio di ogni possibile etichetta, dal progressive al punk, dal cantautore allo psichedelico sognatore, dall’avanguardista sperimentatore al tenue cantore di ballate.

E cribbio, se andiamo a vedere, ci sta tutto. La sua carriera monumentale degli anni ’70 ci ha dato lavori immensi, pietre miliari di ogni genere, sia con i Van Der Graaf, sia nella carriera solista. E quello spettacolare decennio, per Hammill, si conclude con questo PH7, trampolino elettrico, elettronico e visionario che gli consentirà di aprire la nuova decade con quell’altro capolavoro “A Black Box”. Come spesso accade nella sua carriera, anche questa volta si chiude in studio da solo, inizia incidere tutto il materiale scritto nelle settimane precedenti, prepara tutte le basi di chitarra, tastiere e percussioni (poche, poche) e canta su tutto.

A confezionare il lavoro chiama solo David Jackson per le parti di sax e flauto in tre brani e Graham Smith per i violini di quattro brani. Detto così parrebbe un lavoro estremamente intimista e povero, invece la forza melodica e sperimentale del disco e, ovviamente, la voce di Hammill, lo elevano ad una ricchezza sonora davvero notevole.

Dall’epoca di “Nadir’s Big Change” 1974/1975, Hammill ci ha abituati a brani più concisi e sintetici, tornerà di tanto in tanto a qualche raro brano più lungo e a due suite, ma sono altre storie e anche PH7 mantiene la tempistica degli undici brani che lo compongono, nell’arco di qualche minuto ciascuno. Inoltre, in quegli anni si fa predominante la necessità di un brano trainante, un 45 giri da sbattere in classifica e possibilmente farne un video. L’etichetta chiede a gran voce e forza la mano di Hammill che fa quel che può e tira fuori “Careering”, non è quello che sperava, ma riesce a portare l’autore a Top of the Pops e trasmissioni analoghe in Europa, come Discoring in Italia. Un excursus dei brani obbliga a sottolineare le tinte pastello dell’acustica opener “My Favourite” che scorre breve e con una fluidità melodica davvero mirabile. 

Mirror Images” è uno dei brani più importanti del disco e, forse dell'intera carriera solista di Hammill, già presentato live in occasione del temporaneo epitaffio dei Van Der Graaf, quello splendido, essenziale ed unico “Vital” del 1977, dotato di un testo intimista, profondo e una melodia struggente. “Not For Keith” è una commossa e toccante dedica all’appena scomparso Keith Ellis, bassista del disco d’esordio dei VDGG “The Aerosol Grey Machine”. Più sul versante sperimentale, con inserimento di effetti elettronici, si dipanano il finale di “Imperial Walls” e l’avvio di “Mr X (Gets Tense)”. Più ricca e articolata è invece "The Old School Tie”. 

Un tocco di cupa malinconia attanaglia l’ascoltatore ancora in “Time For a Change”, unico brano del disco e tra le pochissime tracce in carriera non scritte direttamente da Hammill, comunque un brano dalla vocalità da brividi.
 

Come in ogni disco hammilliano non c’è sterile amministrazione del talento e fredda applicazione del copione dettato dalla sola bravura. Hammill non dimentica mai di tenersi stretto a quella linea che fa parlare la coscienza e l’emozione. E io lo amo.

(fonte: link)

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— Onda Musicale

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