Cultura ed eventi

Across The World: “Brasile – capitolo 7”

|

Cavallo mannaro. Era una giornata molto assolata a Pedra de Agua, probabilmente la più calda di tutta la settimana e proprio quella mattina io e le mie compagne avevamo in programma di andare a piedi, accompagnate da un paio di ragazze del posto, ad un altro quilombo che stava a circa due ore di cammino dal nostro.

Non ci siamo fatte scoraggiare dai forti raggi del sole e bardate con foulard e occhiali ci siamo messe in marcia percorrendo il minuscolo sentiero che si dirigeva fuori dal villaggio, snodandosi fra altissime palme e rigogliosi banani.

Tutte quante indossavamo con orgoglio le nostre ciabattine infradito che ci avevano sostenute con fedeltà durante tutto il viaggio – anche se valutando il tipo di itinerario di quel giorno chiunque avrebbe optato per un robusto paio di scarpe da trekking.

La camminata era bellissima e durante tutto il tragitto godevamo dei paesaggi mozzafiato nel mezzo del sertão del Paraiba, con verdissimi pascoli, lagune e un cielo azzurro solcato da aquile maestose. La prima tappa era la casa di una signora amica delle ragazze di Pedra de Agua, la quale aveva una bimba in fasce che nelle ultime settimane aveva avuto bisogno di parecchie cure e la cui salute era ancora incerta.

La donna ci ha accolte in casa sua, invitandoci a pranzo per un lauto e godurioso pasto: proprio quello che ci voleva per riprendersi dalla fatica e dal caldo! Ancora oggi porto sulle labbra il sapore di quei fagioli verdi e del riso, tanto era il gusto con il quale avevo spazzolato il piatto.

Appena arrivata, la prima cosa che avevo notato all’ingresso del villaggio era un cavallo, ben strigliato e apparentemente in ottima salute, legato ad un albero. Durante la passeggiata ne avevo adocchiati vari che pascolavano liberi, ma visibilmente malridotti; quello al villaggio ispirava invece fiducia e benessere: era il primo bel cavallo che vedevo in Brasile – non contando i meravigliosi animali che avevo intravisto da lontano in alcuni ranch super lussuosi lungo l’autostrada che da João Pessoa porta verso l’interno.

Proprio per questo prima di imboccare il sentiero che ci avrebbe ricondotte a Pedra de Agua mi sono avvicinata per accarezzare il cavallo.

Dal momento che le mie dita hanno sfiorato appena il collo dell’animale il tempo si è fermato: ho rivisto la mia vita passarmi davanti e tutto è diventato buio intorno a me. Mi sono ritrovata a terra, con il cuore a mille e questa frase in testa: “sono stata un’idiota, morirò qui in Brasile lontana dalla mia famiglia.”

Saranno stati pochissimi secondi, ma mi sono sembrati infiniti nella loro nella loro intensità spaventosa: ero convinta che quando mai avessi riaperto gli occhi mi sarei ritrovata nell’aldilà.

Invece, come in un sogno, ho cercato inconsciamente di rialzarmi da terra, tornando piano piano in me e guardandomi intorno ho visto le mie amiche che mi avevano accerchiata con esclamazioni di estrema preoccupazione e in parte di sollievo: ero viva!

Non avevo ancora ben capito cosa fosse successo, avevo impressa solo la velocità con la quale il cavallo aveva girato la testa nella mia direzione e un forte schiocco della sua mascella. La prima cosa che mi è venuta istintivamente da fare è stata toccarmi il collo con la mano destra e quando l’ho staccata e mi sono guardata il palmo, ho notato con orrore che era coperta di sangue. Ho capito in quel momento cos’era successo: il cavallo mi aveva azzannata.

Eravamo in un villaggio sperduto, non c’era nessuno specchio dove avrei potuto vedere la ferita, così una mia amica mi ha fatto una foto con la sua digitale, mostrandomi poi il segno di quel vicinissimo ed estremo incontro con il cavallo: i suoi grossi incisivi piatti avevano grattato la pelle sottile del mio collo, raschiandola come una grattugia, ma per fortuna mi ero buttata a terra in tempo e avevo evitato per qualche millimetro che il morso dell’equino si stringesse sulla mia giugulare.

Solo il pensiero a posteriori di quello che avrebbe potuto succedere mi ha raggelato il sangue, mezzo secondo di esitazione e non mi sarei davvero mai più rialzata. Certo, il collo mi faceva male e si era già gonfiato, impedendomi di girare liberamente la testa, ma il peggio lo avevo evitato e potevo tirare un sospiro di sollievo. O almeno così credevo.

Subito siamo ripartite a piedi per tornare a Pedra de Agua, dove avevamo lasciato il kit delle medicine; nel piccolo villaggio dove ci trovavamo non c’era altro che una fonte malandata con poca acqua, dove ho potuto solo risciacquarmi le mani e la ferita grossolanamente. Viste però le condizioni igieniche del villaggio, era senz’altro necessario disinfettare la ferita con le dovute precauzioni.

Di ritorno alla nostra casetta di Pedra de Agua, ho potuto contare sul più efficiente e meraviglioso team di infermiere che potessi desiderare: le mie amiche si sono fatte in quattro per medicarmi ed essermi di supporto e forse è proprio per quei momenti rimasti indelebili nel cuore che, anche con il trascorrere degli anni, la nostra amicizia rimane unica e indissolubile; nel momento che avevo sentito la paura della morte così vicina, loro erano lì al mio fianco e questo non potrò mai dimenticarlo.

Sono andata a letto presto quella sera, dopo una tisana e l’ultima medicazione, mi sono raggomitolata nel mio lettuccio a castello avvolto da una lunga zanzariera. Le mie amiche stavano conversando nell’altra stanza, un po’ irrequiete per alcuni figuri ubriachi e con un fucile da caccia che si aggiravano attorno al nostro alloggio.

Io continuavo a rimuginare su quello che mi era accaduto, ringraziando di averla scampata, ma allo stesso tempo ancora preoccupata.

Non avevo fatto il richiamo dell’antitetanica prima di partire e mi frullavano in testa mille pensieri sulle possibili conseguenze che questa mia scelta azzardata avrebbe potuto comportare. Forse era il caso che mi visitasse un medico, forse avrei dovuto andare subito in ospedale per farmi fare il vaccino, forse dovevo chiamare Luis che venisse a prendermi; una cosa era certa: non avrei mai dovuto toccare quel cavallo.

Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare: era notte, le uniche di noi che avevano dietro il cellulare non avevano campo e ci trovavamo a due ore di macchina da João Pessoa, dove viveva il nostro missionario. Per il momento dovevo cercare di stare meglio da sola. Ma quando più tardi sono entrate in stanza le mie amiche, si sono spaventate nel vedermi bianca come la ceramica e febbricitante, il collo gonfio e pulsante. Ormai doveva passare la notte, ma l’indomani avremo trovato il modo di chiamare Luis perché venisse a prendermi per portarmi in ospedale.

Alla luce del giorno e con l’aiuto di una ragazza del quilombo siamo riuscite a contattare il missionario e dopo circa cinque ore ero in viaggio verso la città, accompagnata da una delle mie amiche che era stata male per l’acqua bevuta a pranzo il giorno prima nel nefasto villaggio.

Erano già le 17.30quando l’auto di Luis si è fermata davanti all’edificio che doveva essere la clinica privata dove lui soleva recarsi: a lato della strada sabbiosa e sterrata si trovava una casupola su un unico piano, biancastra con le pareti scrostate, i vetri delle piccole finestre erano a terra in frammenti e tutt’attorno all’ingresso vi erano calcinacci ed immondizie. Il collo mi si è irrigidito ulteriormente ed il cuore ha iniziato a battere più forte. Forse andare in ospedale non era una così buona idea. Sono uscite dalla clinica due signore vestite in malo modo, due infermiere, che ci informavano che la clinica stava chiudendo.

Luis ha spiegato brevemente la mia situazione, descrivendo l’accaduto; le poche parole che ha pronunciato in seguito l’infermiera mi hanno quasi fermato il cuore: “quanto tempo è passato?”. Io: “quasi ventisei ore”, “allora è troppo tardi”.

Troppo tardi??? Cominciavo a non capire più niente, la testa mi pulsava e sentivo brividi lungo tutta la schiena mentre l’infermiera ci liquidava con frasi molto incisive e dirette, dicendo che il cavallo poteva essere rabbioso e quindi correvo il rischio di essere stata infettata. Visto che la ferita era sul collo, quindi molto vicina al cervello, e che erano già passate più di venti ore dal morso, il vaccino post contagio non avrebbe avuto alcun effetto, a suo dire. Inoltre sarebbero state necessario fino a otto dosi diceva, e nella mia situazione non valeva la pena neanche tentare.

Però al massimo avrei potuto fare l’antidoto del tetano, ma chiaramente non alla clinica in orario di chiusura, avremmo dovuto recarci all’ospedale militare dall’altra parte della città. Il tragitto in automobile mi è sembrato interminabile: scrutavo fuori dal finestrino con uno sguardo assente le luci di João Pessoa; tutta la mia concentrazione era nei nervi, che sentivo irrigidirsi sempre più sul lato sinistro ferito del mio viso. Stavo seduta sul sedile anteriore assorta nei miei pensieri e nelle mie paure, mentre davanti Luis cercava di tenere su il morale parlando in continuazione con la mia amica e, credo, anche con me.

Mi ha fatto uscire dal mio limbo quando ha raccontato dell’ultima persona che aveva accompagnato a bordo di quell’auto proprio all’ospedale militare: gli avevano sparato ad una gamba ma purtroppo quando erano riusciti a raggiungere il pronto soccorso, lo sventurato era già morto.

I miei battiti hanno accelerato e sono stata subito nuovamente trascinata nel vortice dei miei pensieri, non volevo parlare con nessuno e tanto meno sentire storie di gente che non ce l’avevano fatta, proprio in quel momento.

Da quando l’infermiera aveva nominato la rabbia, non c’era altro a cui riuscivo a pensare e l’unico modo per sapere il verdetto finale era attendere. Attendere di vivere o di morire. Avevo il terrore di sentire i nervi irrigidirsi, ogni minuscolo segnale del mio corpo mi faceva tremare e rendeva più plausibile quella terribile ipotesi. Stringevo i denti trattenendo le lacrime, scrutando il nulla e pregavo.

Era già buio quando abbiamo parcheggiato davanti al cupo ospedale; fuori dalle porte c’erano i militari armati di guardia e io sono entrata con passo poco deciso nella sala d’aspetto e di ricevimento. La stanza era spoglia, con qualche fila di sedie in metallo e un grande televisore appeso ad una parete che trasmetteva una telenovela; c’erano alcune persone che attendevano, più o meno malmesse.

In fondo si vedeva uno sportello protetto da una grata che doveva essere l’accettazione, anche se sembrava molto più quella di un carcere che di un ospedale. Titubante, mi sono avvicinata alla signora dietro le sbarre e con l’aiuto di Luis abbiamo nuovamente illustrato le mie sventure, poi ho dovuto firmare un plico di carte per dare il mio consenso, ma presa dall’agitazione non avevo la più pallida idea a cosa avessi acconsentito: purtroppo non avevo molte alternative. Subito dopo è arrivata un’infermiera che mi ha condotta ad un tavolino pieghevole da campeggio posto in mezzo alla sala; lì ha tirato fuori il necessario per misurarmi la pressione, per poi concludere la rapida operazione applicandomi al polso una striscia di carta bianca tagliata con le forbici e fissata con un pezzettino di nastro adesivo. Ero pronta per andare dal medico.

In circa mezz’ora sono stata visitata da tre persone diverse, in tre ambulatori, ogni volta rispiegando da capo l’accaduto. Inizialmente i medici (o infermieri?) erano titubanti, un cavallo che azzanna al collo? La loro ipotesi molto più credibile era che fossi stata ferita da mio marito e per paura di ripercussioni non volessi ammetterlo. Che idea balzana!

Ogni volta ho affermato con decisione la mia versione e alla fine si sono convinti, concludendo tutti la stessa cosa: se il cavallo fosse stato infetto dalla rabbia non c’era ormai nulla da fare, però si poteva provare a fare il siero antitetanico.

Se già mi sentivo svenire nel sentire quelle affermazioni, quando sono entrata nell’ennesima stanza dove mi avrebbero fatto il vaccino ero davvero sul punto di crollare a terra. C’erano diverse persone sedute su una panchina di legno che seguiva il perimetro della stanza dalle pareti giallognole; mentre anch’io prendevo posto la mia attenzione è stata catturata da due pazienti: una signora avvolta in una tenda che urlava a squarciagola mentre due infermiere cercavano di immobilizzarla per farle non so cosa (sembrava una cosa orribile, questo è certo), e un ragazzo al quale effettuavano un insolito prelievo di sangue dove lui stesso doveva tirarlo fuori, schiacciando regolarmente una pompetta che teneva in mano.

Queste due visioni mi hanno fatto annebbiare la vista, avrei voluto sparire o fuggire via subito, ma ho stretto i denti e mi sono fatta coraggio.

Dopo un po’ mi si è avvicinata un’infermiera che mi ha condotta nell’angolo della stanza dove c’era un lettino rivestito di carta da pacchi, nascosto da una tenda; mentre mi sistemavo sul lettino è andata a prendere una borsa frigo, dalla quale ha estratto il la siringa e il siero antitetanico.

Mentre scoprivo la coscia, il suo sorriso dolce mi ha invogliata a dire quello che provavo ormai da ore: “ho paura”. Lei ha allargato ulteriormente il suo sorriso, dicendomi di stare tranquilla – sarebbe andato tutto bene.

Fatta l’iniezione mi ha chiesto di attendere sulle sedie fuori dall’ambulatorio, era meglio rimanessi lì almeno un’ora, nel caso avessi avuto qualche reazione imprevista.

Oddio, anche reazioni impreviste potevano capitare? Ormai ero stanchissima, la testa che rimbombava di pensieri, la ferita che tirava e il pensiero della rabbia che mi tormentava costantemente. Quell’ora passata sulla sedia è stata una delle più lunghe mai trascorse; stavo seduta lì, un po’ tremante, concentrandomi su pensieri positivi e di rinforzo. Ero da sola, nel momento in cui più avrei desiderato sentirmi al sicuro e coccolata, non c’era nessuno. Ormai era stato fatto tutto quello che si poteva fare e sapevo che ero l’unica che aveva il potere di farmi stare meglio. Ho passato tutto il tempo a farmi coraggio, sentendo ogni cellula del mio corpo che lottava contro la possibile infezione e assimilava l’antidoto.

Forse, se davvero avessi preso la rabbia, sarei stata già morta. Io invece ero viva, spaventata e ancora sotto shock, ma ce l’avrei fatta, sarei tornata a casa dalla mia famiglia.

Avevo ragione, quando finalmente ho potuto uscire dall’ospedale cominciavo già a sentirmi più leggera, come se stessi lentamente risvegliandomi da un incubo; siamo tornati subito a casa di Luis e, finalmente confortata dalla mia amica che si stava riprendendo dal suo malessere, ho potuto addormentarmi sentendomi ormai al sicuro.

Quegli ultimi due giorni mi avevano messa a dura prova, ma cominciavano già a far parte del passato.

Ho imparato sulla mia pelle che ognuno di noi deve riuscire ad essere di supporto a sé stesso e non pretendere che qualcun altro se ne faccia carico per lui; alla fine, nel profondo, tutti siamo soli e non ci sarà mai chi potrà sostituirci nelle nostre paure e preoccupazioni oppure qualcuno che ci liberi di loro. Purtroppo mi sono resa conto di questo proprio nel momento che, pensavo, più avrei avuto bisogno di essere circondata dalle persone che amavo; invece tremante in ospedale con pensieri di morte per la testa ero da sola. Eppure mai mi sono sentita così completa e a mio agio con me stessa come in quell’occasione, potevo sentire ogni cellula del mio corpo e ogni brivido di energia che mi percorreva. Ero da sola, ma ero io.

Ho capito che avevo la possibilità di scegliere come reagire a quella condizione di solitudine: potevo deprimermi e cedere, oppure usare quei sentimenti a mio vantaggio, per trovare l’energia che solo io sapevo di avere e che sarebbe stata necessaria per far fronte a quella prova. Io ho optato per la seconda possibilità e ci sono riuscita: avevo la mia forza e non mi sarebbe servita quella di un altro. Non dimenticherò mai questa lezione ed il suo insegnamento lo porterò sempre con me, ora so di avere la chiave per affrontare le difficoltà e superarle. Sta ad ognuno di noi decidere se arrendersi o lottare con l’unica arma che può salvarci: noi stessi.

Certo, ho appurato anche la saggezza di un vecchio detto: prevenire è meglio che curare. Nel futuro sarei stata più attenta: non si toccano animali sconosciuti e si prendono le dovute precauzioni prima di partire.

Ormai mancava una settimana scarsa prima del rientro in Italia e certo che, una volta a casa, ne avrei avute storie da raccontare sulla mia meravigliosa ed intensissima esperienza estiva in missione!

L'ultimo capitolo pubblicato della serie "Brasile" (leggi a questo LINK) è stato pubblicato in data 6 marzo 2018; con questo si chiude la serie.

Prossimamente inizierà la nuova serie che ci porterà in un altro pese lusofono altrettanto interessante e affascinante: il Mozambico.

 

Camilla Lorenzini – Onda Musicale

 

 

PAGINA FACEBOOK DI ONDA MUSICALE

— Onda Musicale

Tags: Brasile/Camilla Lorenzini/Across The World
Segui la pagina Facebook di Onda Musicale
Leggi anche

Altri articoli