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Addio alla “fidanzata d’America”: Doris Day è morta oggi a 97 anni

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Doris Day aveva 97 anni ed è morta a causa di una polmonite. Autentica icona americana, Doris è stata protagonista del cinema e della canzone negli anni’60 lavorando per i più grandi registi di sempre.

Doris Day, al secolo Doris Mary Anne Von Kapplhoff,  è scomparsa a 97 anni, per la complicanza di una polmonite. Per anni è stata  la "biondina americana" dal carattere petulante, attorniata di bambini scatenati che le danno la mano ed sempre con il  sacchetto della spesa in braccio. 

Doris ha trascorso 40 anni di carriera ad evitare che i suoi partner, da Rock Hudson a James Garner, da Cary Grant a Clark Gable, perfino loro, entrassero nel suo letto a far danni. Era definita la «vergine di professione».

Solo James Stewart, dottore in vacanza a Marrakesh, e David Niven, un arcigno critico teatrale, avevano i loro bravi diritti coniugali: Day, intoccabile di professione, perfino oltre il pudico codice Hays, aveva generato diaboliche battute: «Io la conoscevo prima che diventasse vergine» disse il pianista Oscar Levant.

Così, ad ogni approccio amoroso lo schermo si divideva in due, secondo lo split screen e Doris e i suoi pretendenti, sia fossero a letto sia in schiumose vasche da bagno, erano confinanti in due diverse inquadrature, come il telefono duplex nel «Letto racconta» di Gordon in cui Hudson si finge gay. Anche se all’anagrafe, per via dell’origine tedesca, faceva Doris Mary Anne von Kappelhoff e cambiò cognome solo dopo il successo della canzone «Day by day”, Doris fu la beniamina e la fidanzatina d’America anni 50, la anti Marilyn, la segretaria che si incontra all’ascensore degli uffici, quella che pur di non “farlo” si faceva venire l’eczema, come nel molto divertente nuovayorkese Il visone sulla pelle” di Mann.

A lei, alla sua improntitudine puritana, si deve una carriera improntata al family way of life, all’epoca dei “Mad men” della pubblicità, anche se in realtà la diva ebbe quattro mariti con due pessime esperienze manesche e truffaldine, per finire la carriera matrimoniale col produttore Marty Melcher, alla cui morte si ritirò dal cinema per darsi solo agli animali, e Barry Comden. Per quattro anni, nei primi anni 60, battendo le colleghe, fu al top del successo occupando, caso raro, due categorie: discografica e cinematografica.

Attrice, certo, di adorabili commedie sul sesso mancato ma freudianamente desiderato; e cantante, per cui vinse due Oscar con “Secret love” da “Non sparare, baciami” e “Que sera sera” con cui salva, dopo il famoso colpo di piatti, il suo piccino che fischia nel capolavoro di Hitchcock “L’uomo che sapeva troppo”, oltre alla bella interpretazione della vera cantante Ruth Etting in “Amami o lasciami” col gangster James Cagney e alla canzone in cui consiglia “Don’t eat the noises”. Nella categoria di attrice ebbe la nomination per “Il letto racconta”, primo capitolo di una trilogia a schermaglia con Rock Hudson macho impenitente: la statuetta gliela soffiò la sexy francese Simone Signoret, ma il pubblico era tutto con lei, specie le donne, specie le zitelle e le malmaritate.

Se non avesse avuto da piccola un incidente d’auto, Doris Day sarebbe diventata grande ballerina come Vera Ellen o Cyd Charisse, mentre la sua carriera si sviluppò con doti di commediante, prototipo di donna pudica, melensa, perennemente in tailleur, mammina cara, americanissima in un finto concetto di femminismo (“Fammi posto tesoro”, giornalista in “Dieci in amore”, “Non mandarmi fiori” di Jewison, “Non disturbare”) prendendosi solo qualche azzeccata vacanza thriller.

Dopo il trionfo del film di Hitchcock infatti la vollero in altri due titoli a suspense, “Merletto di mezzanotte” di Miller con Rex Harrison e John Gavin, minacciata dal classico rantolo al telefono; e “La mia spia di mezzanotte”. Qualcuno la fece perfino morire assassinata in uno strano film del ’50 sul Ku Klux Klan. Ma il terreno fertile di miss Day fu la spensieratezza della commedia musicale e almeno due titoli sono indimenticabili: “Non sparare, baciami”, la storia western di Calamity Jane e “Il gioco del pigiama” di Donen e Abbott, su Babe, sindacalista di una fabbrica di pigiama che si mette prima contro e poi col padrone, soggetto inusuale per un musical, coreografie al top di Bob Fosse.

(fonte: www.corriere.it)

 

 

 

 

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