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29 ottobre 1971: Duane Allman e quell’appuntamento col destino

Quest’anno fanno quarantotto. Quarantotto anni dall’appuntamento col destino di Duane Allman, forse il più grande chitarrista slide – e non solo, per alcuni – della storia del rock.

Redneck, collo rosso. Così sono chiamati i ragazzi del profondo sud americano; camionisti, operai e contadini un po’ grezzi, di quelli con cui è meglio non discutere in qualche locale malfamato o scommettere sul tavolo da biliardo. Quelli che a 12 anni hanno smontato e rimontato nel garage di casa la vecchia Dodge del nonno e che se ne vanno in giro con le loro camicie a scacchi in cerca dei piaceri più semplici: ragazze dagli shorts succinti e una birra gelata. Politicamente sono sempre a destra, ma se glielo chiedi non sanno nemmeno loro perché. Duane e Gregg Allman hanno tutta l’aria di essere due redneck lontani da casa, quando la madre se li porta in Florida alla ricerca di una nuova vita. In realtà, come spesso accade, dietro c’è una storia tragica. Il padre dei due ragazzi, soldato in missione nella guerra di Corea, scampa alle mine asiatiche ma non alla violenza che corre sulle highway americane: un autostoppista lo uccide.

Ma Gregg e Duane sanno fare qualcosa che i redneck in genere si sognano: Gregg è un bravissimo cantante di country e blues e ha convinto Duane a imparare a suonare la chitarra assieme a lui. Per Gregg il primo colpo di fulmine sono le canzoni country che un vicino di casa della nonna canta accompagnandosi con una vecchia acustica. Duane, ricorda il fratello, impara così in fretta che Gregg non potrà più recuperare.

Il secondo colpo di fulmine è di Duane. Nell’estate del ’59 tornano in vacanza nella natia Nashville e vanno a vedere un concerto di B. B. King: “Fu uno spettacolo grandioso – amava raccontare Duane – Mentre lo guardavamo estasiati maturava in noi l’idea di diventare musicisti.”

La trafila è la stessa di tanti ragazzi che non conosciamo perché non ce l’hanno fatta. I due iniziano a suonare in band dalla vita effimera e dai nomi stravaganti: The Y-Teens, The Shufflers, The Esorts, The House Rockers e The Allman Joys. È già arrivato il 1967, anno seminale del rock, quando le cose sembrano decollare. The Hour Glass è l’ennesimo progetto, dedito per lo più a un annacquato Rythym and Blues, ma la Liberty punta su di loro e gli Allman si trasferiscono in California. È in piena esplosione la Summer Of Love, ma Gregg e Duane hanno idee diverse rispetto ai giovani figli dei fiori.

L’etichetta impone un look floreale da hippie psichedelici e rifiuta di pubblicare alcuni brani registrati a Nashville: Fu la goccia che fece traboccare il vaso – sbotta Duane – Non solo ci facevano vestire come degli sballati californiani, dei figli dei fiori smidollati e sempre fatti, ma dimostravano anche di non capire niente di musica. Così io e Gregg ce ne siamo andati per fare di testa nostra e per dimostrare che nel mondo c’era spazio per una solida band di rock blues.

Nonostante la roboante sparata, Duane non ha nulla per le mani e quando Rick Hall, dei Fame Studios di Muscle Shoals, lo contatta per ingaggiarlo come turnista (leggi l’articolo), il ragazzo accetta. In fondo sempre di suonare la chitarra si tratta.

Nel frattempo era accaduto qualcosa che segnerà il futuro di Duane. Convalescente per una caduta da cavallo, aveva ricevuto in regalo da Gregg – o almeno questa è la sua versione, nonostante qualche dubbio – una copia del disco d’esordio di Taj Mahal e una bottiglietta di Coridicin, un medicinale anti congestionante. Duane si esercita su Statesboro Blues di Mahal, utilizzando il flacone vuoto per suonare la slide, facendolo scivolare sulle corde. Da allora la sua fiammante chitarra slide sarà suonata, di preferenza, sempre col flacone di vetro.

Come turnista Duane non fatica a mettersi in luce, tanto è il suo talento. Suona ancora una Fender Stratocaster, prima della Les Paul con cui entrerà nel mito. La sua chitarra piange il blues come nessun altra in Loan Me A Dime di Boz Scaggs e accompagna artisti come Otis Rush, Laura Nyro e Aretha Franklin. Ma è la sua improvvisazione sulla celebre Hey Jude incisa da Wilson Pickett a farlo volare. Pickett lo soprannomina Skyman, pseudonimo che miscelato col vecchio nomignolo Dog, crea Skydog, il soprannome che gli rimarrà appiccicato. Ma Hey Jude, soprattutto, fa innamorare del suo suono Eric Clapton, uno che non è mai stato geloso dell’altrui tecnica, tanto da essere amico di Jimi Hendrix e George Harrison. Proprio Slowhand lo vuole come guest nei Derek & The Dominos. Duane lo ripaga inventando il riff che sparerà in orbita Layla e il Clapton post Cream.

Finalmente i tempi sono maturi per tornare a pensare a una band che finalmente renda merito alle abilità di Duane e Gregg: “Il momento buono arrivò nel marzo del 1969, quando io e il batterista Jai Johansson capitammo a Jacksonville mentre alcuni dei componenti dei 31st of February e dei Second Coming stavano facendo una session. Fu amore a prima vista. Nel corso della notte convocammo Gregg e nel giro di poche ore nacque l’Allman Brothers Band” – ricorda Duane Allman.

I primi due album – The Allman Brothers del ’69 e Idlewild South del ’70 – sono un connubio di blues, country e jazz che non solo fanno capire le potenzialità della band, ma creano un vero e proprio genere: il southern rock. Una musica se vogliamo di reazione all’ondata psichedelica californiana, destinata a fare furore per tutti gli anni settanta, priva di richiami filosofici e politici, buona soprattutto per divertire e far ballare ai grandi raduni. Ma piena di tecnica.

Tuttavia, l’anno decisivo è il 1971. At Fillmore East è un doppio live, caratterizzato da una trascinante versione di Statesboro Blues e dalle chilometriche rese di In Memory Of Elizabeth Reed e Whipping Post (oltre 22 minuti). La chitarra di Duane è spaziale, incrocia con naturalezza country, blues e jazz come mai si era visto fare.

“Nessun gruppo riesce ad essere eccitante dal vivo come noi: con due chitarre, due batterie, tastiere e basso riusciamo ad esprimere una potenza davvero unica. E poi Gregg è il più grande cantante del secolo.” Sono le parole di Duane Allman, le parole di un uomo impulsivo e orgoglioso del sud. Ma è pur vero che dopo quasi 50 anni quel disco è ancora ritenuto uno dei migliori – il migliore, per alcuni – lavori live della storia del rock.

Gli Allman Brothers volano nel firmamento del rock. Duane ha 25 anni e finalmente può scrollarsi di dosso l’etichetta di redneck e permettersi quello che vuole. Ma, come si dice in questi casi, il destino è in agguato, quanto mai beffardo, e prende le sembianze di un camion.

È il 29 ottobre del 1971 e Duane sta rientrando a Macon sulla sua grossa motocicletta dalla festa di compleanno di Linda, moglie di Berry Oakley, bassista degli Allman. Un camion lo investe: il volo è di quasi cinquanta metri, di quelli da non lasciare scampo. E infatti Duane resiste tre ore in cui viene operato d’urgenza e poi cede.

Lo sconforto è terribile, per gli Allman e per il mondo del rock che piange l’ennesimo eroe. Ma il destino, come detto, è beffardo. Gli Allman decidono di andare avanti senza sostituire – come potrebbero? – Duane. Esce Eat A Peach, lavoro dove è ancora presente la sua chitarra, ma l’anno dopo, l’11 novembre del 1972, ad appena tre isolati da dove è morto Duane, si schianta anche Berry Oakley, stavolta contro un autobus.

Gli Allman vanno ancora avanti, ma nulla sarà più come prima. Il sound, sempre più country e infiacchito, e l’atmosfera, densa di polemiche e litigi. Un tira e molla che andrà avanti fino alla morte di Gregg, nel 2017, che mette la pietra tombale sulla storia gloriosa degli inventori del southern rock.

E, a quarantotto anni dalla morte, è bello – e forse inutile – pensare a Duane Allman, con la sua folta chioma, i baffoni e una bottiglietta di Coricidin che scivola sulle corde di una Les Paul.

— Onda Musicale

Tags: Hey Jude, Eric Clapton
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