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Neil Young torna con “Colorado”: ecco la nostra recensione

È appena uscito Colorado, trentanovesima fatica del vecchio lupo solitario Neil Young, e prima coi suoi Crazy Horse da Psychedelic Pill del 2012.

Ogni nuova uscita di Neil Young è attesa da queste parti come un ritorno nella vecchia casa d’infanzia: sai che ogni volta potrebbe essere l’ultima in cui ritrovi i vecchi personaggi del paese, quelle costruzioni datate e fatiscenti ma non prive di un fascino intrinseco ed estrinseco assieme. E va detto che il buon vecchio Loner non si risparmia affatto; con le settanta primavere passate da un po’, continua a sfornare più o meno un disco all’anno. Di una cosa gli va reso pieno merito: pur tra qualche ingenuità e un po’ di retorica di troppo, Neil è uno dei pochi ad avere ancora il coraggio di prendere posizioni nette, più di certi colleghi che hanno da poco dismesso il biberon ma che sono già reazionari quanto un vecchio sceriffo texano.

E se ultimamente l’oggetto delle sue tirate era sempre Trump, qui il presidente dalla bizzarra chioma non è l’unico bersaglio. Young cavalca i tempi e si scaglia contro il riscaldamento globale, contro il suprematismo bianco e a favore dei diritti LGBT. Niente male per un ultrasettantenne che si è ritirato tra le montagne del Colorado, ma capace anche – non dimentichiamolo – di sposare l’icona di Hollywood Daryl Hannah appena un anno fa.

E proprio dal suo rifugio nel Colorado – Telluride, 2500 metri di altitudine – prende il titolo il nuovo lavoro. Registrato completamente nello studio casalingo e con tecnologia analogica, lo stesso impianto di Harvest, 1972, l’album presenta le due tipiche anime di Young e dei Crazy Horse: una acustica e intimista, l’altra fatta di sghembe galoppate elettriche.

Per preservare il tipico sound degli anni settanta, Young ha preteso che i suoi compagni di viaggio conoscessero solo gli accordi delle canzoni, lasciando così che l’improvvisazione prendesse il sopravvento, donando quel quid di imprecisione e spontaneità al tutto.

E il risultato rispecchia in pieno il desiderio del canadese. I Crazy Horse non sono mai stati dei fuoriclasse ai rispettivi strumenti e nonostante ciò hanno fatto scuola a intere generazioni di band – specie quelle grunge – col loro sound fatto di fili sparsi e suoni a volte scalcinati, ma sempre ricchi di un feeling che non si può studiare a tavolino. Un’alchimia che si rinnova anche dopo cinquant’anni e l’innesto nella band di Nils Logfren, storico chitarrista di Springsteen, al posto del dimissionario Frank “Poncho” Sampredo.

Insomma, trafeeling perduto e ritrovato, temi sociali e ritorni a casa, quello che rischia di passare in secondo piano è la musica. E sarebbe un peccato, perché Colorado è un lavoro piacevolissimo, siate o no fan di Neil Young. Se Psychedelic Pill era un distillato elettrico di cavalcate furenti e con passaggi geniali, Colorado è un lavoro più maturo e misurato.

Think Of Me apre l’album e subito ci si cala nelle tipiche atmosfere younghiane: chitarre acustiche e un’armonica da strada, armonie vocali studiate lì per lì e un andamento che ricorda tanto il country del sottovalutato e geniale Fred Neil. She Showed Me Love bilancia subito i conti con la parte elettrica: più di tredici minuti in cui pare di essere tornati alla fine degli anni sessanta. Young non ha forse mai avuto il giusto riconoscimento come chitarrista elettrico, eppure, al di là di una tecnica non certo virtuosa, le melodie che riesce a tirar fuori dalla sua sei corde sorprendono sempre e hanno un timbro tra i più riconoscibili della storia. Per non parlare delle legioni di band che hanno tratto linfa dal suo repertorio. Dal country al punk, dal grunge all’americana, Neil Young ha attraversato decenni di rock meritando il rispetto di tutte le nuove generazioni senza passare mai di moda.

Olden Days è una malinconica ballata, irrorata da un filo di elettricità, che parla dei tanti amici persi e ritrovati nella lunga strada percorsa. Il falsetto zoppicante di Young mette i brividi, dettando la cifra di un personaggio tanto duro all’apparenza quanto fragile nel suo aprirsi attraverso la musica. Ogni volta che la sua voce sembra spezzarsi rievocando i compagni che non ci sono più è un tuffo al cuore. Il 2019 si è peraltro portato via l’ex moglie Pegi (leggi l’articoloe il manager Elliot Roberts.

Il disco prosegue tra le asprezze elettriche e quasi grunge di Help Me Lose My Mind e Shut It Down, le carezze acustiche di Eternity e I Do e pezzi di confine come le belle Milky Way e Rainbow Of Colors.

In conclusione – perché una conclusione si deve pur tirare – Colorado è un disco consigliato ai fan di Young, ça va sans dire, ma anche a chi ancora cerca nella musica il sentimento, la passione e, perché no, strumenti che suonino alla vecchia maniera, senza tanti artifici.

E, ci risiamo, un’ultima visita al vecchio paese. Sperando che non sia l’ultima.

— Onda Musicale

Tags: Crazy Horse, Neil Young
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