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Led Zeppelin IV: alla ricerca dell’album perfetto

L’otto novembre del 1971 usciva il quarto album dei Led Zeppelin: si tratta di un disco senza titolo, senza immagini della band e addirittura che non ne riporta neanche il nome; nemmeno i Beatles, col White Album di pochi anni prima, avevano osato tanto.

Headley Grange è una vecchia abitazione rurale, tipicamente inglese, immersa nel verde dell’East Hampshire, non troppo distante da Londra. Il cottage venne costruito nel 1795 a un costo stimato di circa 1.500 sterline, per le parrocchie di Headley, Bramshott e Kingsley, per proteggere i loro infermi, poveri anziani e bambini orfani o illegittimi. Dopo una storia ricca di peripezie – tra cui il saccheggio di una folla di rivoltosi nel 1830 – divenne negli anni sessanta un ostello per la gioventù, prima di essere destinata all’utilizzo che la fece entrare nella storia, ovvero come studio di registrazione per importanti gruppi rock. La quiete e la grande bellezza dei luoghi, le bislacche leggende di fantasmi, ma soprattutto l’incredibile acustica di alcune sue stanze, ne fecero un luogo di culto. Specie dopo che i Led Zeppelin vi registrarono il loro album perfetto, il quarto. Quello senza titolo.

Nel 1971 i Led Zeppelin erano reduci da un biennio senza precedenti; passarono dall’essere quattro ragazzotti di belle speranze ai numeri uno del panorama pop, riempiendo il vuoto lasciato dai disciolti Beatles. Jimmy Page, dopo anni come turnista, poteva finalmente assecondare il suo estro creativo e la sua voglia di sperimentare; Robert Plant, le cui urla dissennate non l’avevano reso una star nonostante la militanza in un gran numero di band, poteva fare quello che meglio gli riusciva: cantare e dimenare sul palco il proprio, sconfinato, ego; John Bonham, un semplice ragazzone di campagna destinato alla falegnameria, stava rivoluzionando il modo di suonare la batteria e, senza saperlo, aveva iniziato la sua discesa agli inferi; John Paul Jones era il più tranquillo, defilato ma fondamentale negli equilibri della band.

I Led Zeppelin avevano talmente successo dall’essere passati in un battito di ciglia da un primo album prodotto in economia a viaggiare su un jet privato con la loro effige. Ma il 1971 era anche il momento di riprendere fiato, rallentare sia nei ritmi di vita che in quelli musicali. Ed era il momento di inseguire il disco perfetto.

“Era giunto il momento di fermarci, di fare rifornimento e non perderci nel caos. Gli Zeppelin stavano diventando veramente grandi, e volevamo che il nostro viaggio proseguisse tranquillamente”, ebbe a dire di quei giorni Jimmy Page.

Dopo l’accoppiata I e II, un hard blues accelerato e quasi senza soste che aveva dato la stura a una quantità di imitatori e un genere musicale nuovo, l’hard rock, già Led Zeppelin III aveva mostrato segni di cambiamento. Page, gran burattinaio, pareva voler smussare gli angoli, attenuare il furore degli esordi in favore di una musica più matura. Più pensata.

Il quarto lavoro doveva essere perfetto, incentrato solo sulla musica, senza gli eccessi che già iniziavano a far storcere il naso a più d’uno.

La trovata del packaging senza nessun riferimento a band, autori o titoli, come potete immaginare, non faceva impazzire quelli dell’Atlantic, che temevano un colossale buco nell’acqua. A questo proposito è ancora Page a parlare: “Decidemmo che in copertina non ci sarebbe stata alcuna informazione. Nomi, titoli, e cose simili non significano nulla. Ciò che importava era la nostra musica.”

La copertina ritrae un muro consumato dal tempo su cui è appesa una cornice. All’interno una fotografia ritrae un anziano contadino, piegato sotto il peso di una grossa fascina di legname. L’idea era quella di rappresentare lo scorrere del tempo. All’interno dell’LP spicca un oscuro disegno di Barrington Colby, che raffigura l’Eremita, una carta dei tarocchi, e che ricorda vagamente alcune incisioni di Escher. (leggi l’articolo)

Per molto tempo è stata diffusa la credenza che il personaggio fosse ispirato a Il Signore Degli Anelli, libro amato da Plant e più volte citato dalla band. Unica firma dei quattro, i simboli che appaiono in calce, che tanto hanno fatto almanaccare ma che non sono altro che segni tratti da un antico libro di rune.

Siamo alla musica. Approcciarsi a un disco che, unanimemente, è ritenuto uno dei grandi capolavori del rock e che, nonostante i cupi vaticini dell’Atlantic, vendette tantissimo, può risultare non facile. O almeno approcciarsi in modo non superficiale. Prendiamo l’apertura del lavoro; Black Dog – che con Rock’n’roll fu l’unico singolo – può sembrare la summa dell’hard rock anni ’70. Riff fulminante con un tempo complesso – dovuto, si dice, a Jones – voce ululante di Plant e assolo di Page frutto di complicate operazioni di missaggio.

Il punto è proprio questo: eravamo nel 1971, gli anni ’70, come siamo abituati a considerarli, non esistevano; e così quel suono, allora del tutto nuovo. Il black dog del titolo era un era un labrador retriever nero che vagava per Headley Grange, mentre per il modo di cantare pare che Plant si fosse ispirato a Oh Well, un pezzo dei Fleetwood Mac che effettivamente ha qualche somiglianza nella struttura. Basterebbe già un pezzo così per schiudere le porte del mito all’intero disco, ma siamo solo all’inizio. Rock’n’roll è un genuino omaggio al rock degli anni ’50 e venne fuori del tutto spontaneamente, nel giro di un quarto d’ora, mentre la band non riusciva a venire a capo dell’arrangiamento di Four Sticks. Segue The Battle Of Evermore; non erano nuovi, i Led Zeppelin, a infilare momenti acustici tra una tirata hard e l’altra.

Tuttavia, questo pezzo risalta in modo particolare nella loro discografia. Prima di tutto è l’unico in cui non canta solo Robert Plant; ad accompagnarlo la divina Sandy Denny, cantante degli allora rispettatissimi Fairport Convention. Ed è proprio questa commistione di generi una delle chiavi di volta del mito degli Zeppelin. In quel periodo, col beat e il blues revival al tramonto, i generi che si dividevano la scena erano il folk revival e l’hard rock; o stavi da una parte o dall’altra. I Led Zeppelin no, loro potevano permettersi di frequentare da maestri tutti e due i versanti, e The Battle Of Evermore, col suo testo fantasy e il mandolino che detta le linee, ne è il perfetto esempio.

Siamo a metà disco e la band cala il capolavoro della carriera e non solo. Stairway To Heaven, un sontuoso brano che mischia folk e hard in modo inedito. Un’introduzione di chitarra che è divenuta talmente proverbiale da risultare quasi inflazionata e che è valsa un’accusa di plagio non del tutto infondata – da parte degli Spirit di Randy California. La canzone è assolutamente perfetta, dall’oscuro testo di Plant – che ha alimentato le consuete, bislacche, accuse di satanismo – al flauto suonato da Jones. A un certo punto le atmosfere bucoliche della 12 corde di Page lasciano il posto a una delicata elettrificazione, prima dell’esplosione hard del finale. L’assolo – suonato su una Telecaster del ’59, regalata a Page da Jeff Beck – è travolgente, tanto che alcune riviste di settore lo giudicheranno il migliore della storia del rock.

Riprendersi da Stairway To Heaven non è semplice, ed effettivamente il disco va avanti un po’ in calando, e non potrebbe essere altrimenti. Misty Mountain Hop è un hard rock dal riff micidiale e l’andamento funkeggiante; narra un incontro con la polizia dopo aver fumato marijuana in un parco e contiene di nuovo citazioni tolkeniane. Il lavoro di Page alla chitarra, sottovalutato a causa della grandezza degli altri pezzi, non è da meno che, per dire, in Black Dog. Four Sticks – in onore alle quattro bacchette che Bonham era in grado di impugnare contemporaneamente – propone un altro riff killer e un solo di sintetizzatore che emula la chitarra acustica. Going To California è di nuovo una bellissima carezza acustica, pare dedicata a Joni Mitchell, la profetessa del folk che sia Page che Plant stimavano tantissimo. La ritmica vede la chitarra di Page e il mandolino di Jones incrociarsi sapientemente.

A chiudere il lavoro il richiamo più evidente al blues delle origini, con When The Levee Breaks, accreditata a Memphis Minnie – a pararsi da accuse di plagio, che spesso piovevano sulla band – e lunga oltre sette minuti. Ma anche qui l’approccio è tutto nuovo; il blues c’è ma non è più derivativo come nei primi dischi. Bonham posiziona la sua potentissima batteria sotto una scalinata di Headley Grange, ottenendo un incredibile riverbero naturale. Non solo, gli strumenti, compresa l’armonica suonata da consumato bluesman da Plant, vengono rallentati per dare un tono ancora più pesante al minaccioso incedere del brano. Tutti tranne la voce di Robert Plant, che cerca l’ispirazione dalle parti del primo Elvis. Jimmy Page si cimenta con una misurata prestazione alla chitarra slide; quello che ne esce è l’ennesimo capolavoro di un disco perfetto, un pezzo che trascina il blues degli anni ’30 in piena era moderna. Una rivisitazione che non sarà più superata.

Insomma, Led Zeppelin IV è un disco che spesso fa ancora parlare più per motivi accessori alla musica: il satanismo di nastri ascoltati al contrario, le dimore infestate, la copertina criptica e priva di riferimenti. Noi vi consigliamo di ascoltarlo ancora una volta, con orecchi nuovi e concentrandovi solo sulla musica, splendida e mai più così ricca di trovate.

E di ascoltarlo nel giusto verso, of course.

 

— Onda Musicale

Tags: Stairway to Heaven, John Paul Jones, Led Zeppelin, Jeff Beck, marijuana, Robert Plant, Randy california, Jimmy Page
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