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Days of Future Passed: il matrimonio perfetto tra Classica e Rock [Parte Prima]

Nel panorama musicale britannico degli anni ‘60 il repertorio blues e rythm and blues soffiava impetuoso come un vento in grado di scuotere via il grigiore austero che incombeva sulle città e i loro abitanti sin dalla fine del secondo conflitto mondiale.

La potenza di questa musica venuta dall’America esercitava un richiamo irresistibile sui giovani, decisi a provare l’ebbrezza della ribellione, e provocava disapprovazione nelle generazioni più vecchie, il tutto all’interno della cornice familiare del classico scarto generazionale.

Tra i gruppi che calcavano la scena snocciolando un consolidato repertorio R’n’B, all’inizio del decennio c’erano i Rolling Stones (ad essere più precisi, più orientati verso il blues), gli Animals di Eric Burdon (dal profondo nord inglese, cioè Newcastle Upon Tyne) e i Moody Blues, originari di Birmingham, nel cuore del Paese.

Questi ultimi avevano iniziato la loro carriera all’inizio del 1964 con una formazione che comprendeva Ray Thomas (armonica, voce e percussioni), Mike Pinder (tastiere e voce), Graeme Edge (batteria), Denny Laine (chitarra e voce) e Clint Warwick (basso e voce). Il loro primo grande risultato era stato conquistare la classifica britannica con l’interpretazione di “Go Now”, secondo singolo della loro discografia, in origine pezzo cantato da Bessie Banks. Il resto dell’album, diversamente da questo singolo già in grado di anticipare le future sonorità dei Moody, era costruito sulle sfumature del R’n’B, cosa in sé prevedibile, dato che era questo il tipo musica che i cinque suonavano in quel momento.

Nonostante il promettente esordio, la spinta del successo si era raffreddata abbastanza rapidamente, dato che i singoli successivi a “Go Now” non avevano ottenuto i risultati sperati. Probabilmente a causa di questa situazione, nel corso del 1966 Warwick e Laine lasciarono il gruppo: il primo lasciò anche il mondo della musica, dedicandosi al lavoro in proprio, mentre Laine si cimentò in alcune esperienze, più o meno fortunate, che nell’arco di qualche anno l’avrebbero condotto a suonare nei Wings di Paul McCartney.

Le sorti del gruppo di Birmingham cambiarono in maniera decisa con l’ingresso di Justin Hayward e John Lodge. I Moody Blues avevano assunto quella che per noi è la formazione classica.Nell’immediato, continuarono ad esibirsi nei club inglesi con il collaudatissimo repertorio delle origini, ma si resero ben presto conto che tra loro – ragazzi inglesi della middle class – e le tradizioni musicali del profondo sud dell’America non poteva esserci vera affinità, trattandosi della forzatura dettata da una moda dominante (“It just wasn’t honest”, a detta di Hayward). L’impellente necessità di dare una nuova fisionomia al loro sound fu confermata dai concerti parigini di fine 1966 a supporto di Tom Jones: durante le esibizioni il gruppo si era reso conto che le nuove composizioni – in cui iniziava a prendere piede il mellotron – riscuotevano un successo decisamente maggiore rispetto al vecchio repertorio, ormai “smussato”.

Maggio 1967: in concomitanza con la pubblicazione del singolo Decca “Fly Me High / “Really Haven’t Got The Time”, i Moody Blues registrano per Saturday Club, programma radiofonico della BBC, l’interpretazione della celeberrima “Don’t Let Me Be Misunderstood”, oltre ad una nuova composizione, a firma Justin Hayward. Si tratta di “Nights In White Satin”, una delle prime pietre poste nella costruzione di quel disco che sarà Days of Future Passed. Il brano in questione diverrà celeberrimo in Italia per via della cover fattane dai Nomadi, dal titolo “Ho difeso il mio amore” (singolo del 1968).

Altro brano del futuro disco ad essere eseguito per così dire in anteprima fu “Peak Hour”, che nella scaletta del celebre LP occuperà la posizione centrale. L’occasione della sua esecuzione – sarebbe meglio definirla “collaudo” – era stata studiata per cadere in concomitanza con la pubblicazione del nuovo singolo “Love and Beauty” / “Leave This Man Alone” (Settembre 1967).

Non tralasciamo un aspetto che sarà di fondamentale importanza nel conferire a Days of Future Passed quella Grandezza che ancor oggi conserva immutata. Parlo della sua eccellente, straordinaria, sbalorditiva qualità sonora. La Decca aveva creato l’etichetta Deram per proporre al vasto pubblico musica che fosse particolarmente innovativa e soprattutto particolarmente intrigante come qualità audio, ideando il cosiddetto Deramic Sound System – un mixaggio Stereo in cui vi era grande separazione tra canale sinistro e canale destro, aspetto che contribuiva efficacemente nel modellare un suono “tridimensionale”. Rispetto al mixaggio Mono, ancora assai diffuso, quello Stereo della Deram era il non plus ultra sul mercato.

Days of Future Passed, o meglio, il nuovo disco che i Moody Blues avrebbero realizzato, era l’occasione perfetta per collaudare questo gioiello della tecnica. Hugh Mendl, manager della Decca (o come si dice A&R), contattò il gruppo per proporgli di realizzare una trasposizione in chiave rock della Sinfonia n.9 di Antonín Dvořák (1841-1904): l’idea – alla base di quello che sarà noto come progressive rock, tra i cui esempi possiamo annoverare il Concerto for Group and Orchestra (1969) dei Deep Purple – era, per l’appunto, quella di far dialogare chitarra, basso, batteria e quant’altro, con archi, fiati e tutto ciò che generalmente si ritrova in un’orchestra. Un simile progetto si poneva come uno stadio ancor più avanzato di quel connubio già tentato in nobili esempi come la celeberrima “Strawberry Fields Forever” dei Beatles o l’opera Pet Sounds dei Beach Boys.

I Moody Blues accettarono l’idea, ma a condizione di non subire interferenze da parte degli amministratori della casa discografica. Insomma, ebbero carta bianca. Nell’Ottobre 1967 i lavori veri e propri finalmente iniziarono. Il gruppo convinse il produttore Tony Clarke e il compositore/direttore d’orchestra Peter Knight (probabilmente ritratto nel cavaliere armato che compare nella copertina del disco) a desistere dal progetto di rendere Dvořák in chiave rock. L’alternativa era il dedicarsi alle nuove composizioni che essi avevano scritto e ordinato nella struttura di un nuovo ed originale tipo di spettacolo, la narrazione in musica della giornata di lavoro di un uomo comune.

Gli arrangiamenti orchestrali di Knight avrebbero dato, come poi si sarebbe rivelato, respiro e luce – oltre che armoniosa connessione tra i singoli capitoli del disco.

Per conoscere la genesi di questo magnifico disco dei Moody non lasciatevi sfuggire la prossima puntata.

— Onda Musicale

Tags: Moody Blues, Eric Burdon, The Rolling Stones, Animals, The Beatles, Paul McCartney, Wings
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