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6 dicembre 1969: Altamont, gli Stones e la fine del sogno

All’Altamont Raceway Park è tornata la pace; campi verdi a perdita d’occhio, punteggiati da qualche mandria che pascola placidamente e solo i tralicci dell’energia elettrica a turbare la linea dell’orizzonte. Niente più rombo di motori, e niente più concerti, soprattutto.

Eppure le cose erano molto diverse in quel 6 dicembre di cinquant’anni fa; ben 500mila persone erano accorse da tutti gli USA per un nuovo grande happening dopo Woodstock, l’Altamont Free Concert.

Il 1969 dei Rolling Stones era stato fino a quel momento un anno avventuroso, denso di successi ma segnato da una grande tragedia, la morte di Brian Jones.

All’inizio dell’anno – può sembrare strano oggi che la band è la più longeva testimonianza del rock – i Rolling Stones sono in crisi. Non vanno in tour dal ’66, ultimamente hanno messo in cima alle classifiche un solo brano – Jumpin’ Jack Flash – e in più i Beatles dimostrano sempre di essere avanti anni luce nei territori del pop sperimentale. I Rolling Stones, insomma, fanno più parlare per i pettegolezzi e per storie di droga che creano più di un problema.

Brian Jones, soprattutto, è un po’ l’altro diamante impazzito inglese, dopo Syd Barrett. Il biondo chitarrista, fin dall’inizio anima creativa e sperimentale della band, è ormai avulso dal contesto; nelle session che porteranno a Let It Bleed suona poco o nulla, qualche percussione qui, un’armonica là. La realtà è che le dipendenze e interessi extra musicali lo portano da un’altra parte.

L’unica ancora di salvezza per gli Stones è ripartire in tour, in America magari. Brian Jones si fa a quel punto un problema ancora più grande: coi suoi problemi legali il visto per gli USA non potrà vederlo nemmeno col binocolo. E così il biondo Brian viene messo fuori dalla band. Passerà poco tempo e morirà annegato, tra i fumi delle droghe, nella piscina di Cotchford Farm, la sua nuova villa.

Il già previsto concerto degli Stones ad Hyde Park, due giorni dopo, sarà dedicato a lui. Dopo un’estate piuttosto agitata, tra beghe artistiche e familiari, finalmente, a novembre, parte il tour americano da Los Angeles, con faccia d’angelo Mick Taylor al posto di Jones.

18 show in 23 giorni, attraverso 14 città. In tre anni di assenza dai palchi tutto è cambiato; se una volta un concerto degli Stones durava 20 minuti, ora – dopo l’avvento di animali da palco come Led Zeppelin e Grateful Dead – il live si trascinano per più di due ore. Gli Stones si adattano e dispensano “sciovinismo maschilista, sesso, droga e violenza rivoluzionaria”, secondo il New York Daily News. Quindi grande successo.

Il tour si conclude il 30 novembre a Palm Beach, nell’ambito di un grande festival, come ne fioriscono continuamente dopo Woodstock. Jagger e soci suonano insieme a Moody Blues, King Crimson, Ten Years After, Janis Joplin, Steppenwolf e tanti altri. È un trionfo.

Va così bene che, dopo essere volati ai Muscle Shoals in Alabama per registrare un nuovo pezzo, Brown Sugar, i Rolling Stones decidono di fare un regalo ai fan americani: un grande concerto gratuito come quello di Londra ad Hyde Park.

A Tracy, una sonnacchiosa cittadina californiana, da tre anni è aperto l’Altamont Race Park, un autodromo dove si svolgono le pacchiane gare Nascar americane. È il posto giusto. Il 6 dicembre gli Stones saranno il numero principale di un tabellone leggendario, a guardarlo oggi: Santana, Jefferson Airplane, Flying Burrito Brothers, Crosby, Stills & Nash e Grateful Dead. A organizzare il tutto Rock Scully, manager dei Grateful Dead. Pare sia sua la scellerata idea di affidare il servizio di sicurezza agli Hell’s Angels.

Gli Hell’s Angels sono una banda di motociclisti, anzi la banda per eccellenza. Nati nel 1948 per raccogliere degli aviatori reduci dalla Seconda Guerra Mondiale che non riuscivano a reinserirsi nella vita di tutti i giorni, prendono il nome proprio da un leggendario battaglione aereo. Trascorrono le giornate spostandosi a bordo dei loro chopper, delle Harley Davidson pesantemente rimaneggiate, passando da una rissa all’altra, con alcool e donne facili come sole ragioni di vita.

Gli Hell’s vengono pagati con 500 dollari in casse di birra: We Like Beer è, del resto, il motto di Sonny Barger, uno dei fondatori. Al loro arrivo, giubbotti d’ordinanza e moto tirate a lucido, è subito chiaro che non è stata una buona idea.

Truci e strafatti, non perdono la buona occasione di sfogare la loro rabbia su quei fricchettoni che si ammassano ai piedi del palco. Picchiano con stecche da biliardo e con qualsiasi oggetto possa essere usato come arma; Santana è costretto a interrompere l’esibizione, ai Jefferson Airplane va peggio. Marty Balin, resosi conto della situazione, cerca di ribellarsi e viene picchiato e messo KO dagli Hell’s Angels.

L’atmosfera, da festosa e pacifica che doveva essere, si fa sempre più tesa. A parlare è Bill Wyman:

L’intero palco brulicava di Angels appena la musica attaccava, gli Angels caricavano il pubblico colpendo con stecche da biliardo chiunque si trovi in mezzo. Alla fine del primo brano venivano portate barelle tra la folla e i corpi trasferiti nella zona della Croce Rossa.

Quando gli Stones attaccano il loro set sono le quattro e mezzo di pomeriggio; tecnicamente siamo di fronte a un altro disastro, l’amplificazione non è all’altezza e i musicisti sono distratti dalle risse che si scatenano continuamente tra il pubblico. I fratelli Maysles – registi – stanno girando la pellicola che uscirà come Gimme Shelter e riprendono tutto.

L’operazione acquisterà purtroppo un’imprevista importanza storica ma anche giudiziaria; durante l’esecuzione di Sympathy For The Devil uno stralunato Mick Jagger è addirittura costretto a sospendere l’esecuzione. Possiamo vederlo nelle riprese del film mentre, in una discutibile palandrana rossonera, tenta di ammansire il pubblico con le parole chiave dell’ormai dismessa Summer of Love: brothers, sisters, peace suonano sinistramente vuote mentre gli Hell’s Angels caricano un pubblico composto per lo più da giovani ragazze in adorazione e inoffensivi hippies stonati dalla cannabis.

Il concerto riprende ma, durante Under My Thumb, in un ennesimo tafferuglio, Alan David Pissarro – uno dei più scalmanati tra le fila Hell’s Angels – accoltella Meredith Hunter, un diciottenne afroamericano che pare impugnasse una pistola. Gli Hell’s infieriscono a pugni, calci e colpendolo con vari oggetti, tra cui un cassonetto per i rifiuti. Il giovane viene portato via tra le urla di una ragazza bionda che forse lo accompagnava; è gravissimo. Gli Stones riescono a suonare qualche altro pezzo e poi fuggono via in elicottero; ne sono usciti senza danni.

Hunter muore poco dopo, Pissarro sarà processato e assolto per legittima difesa, anche se nessuno saprà mai con esattezza cosa è successo; le riprese sono al riguardo piuttosto confuse ma paiono dargli ragione. Pissarro morirà peraltro in circostanze misteriose nel 1985, ripescato in un lago di Santa Clara con 10mila dollari nelle tasche.

I Rolling Stones tornano in patria. Si dice che gli Hell’s Angels ce l’abbiano talmente con loro da ordire un piano per uccidere Mick Jagger: realtà o fantasia? Fatto sta che il buon Mick è ancora qui a dimenarsi sui palchi. La band si porta via il film che stava girando e le registrazioni per l’album dal vivo Get Yer Ya-Ya’s Out, uno dei migliori live della storia. Possono ritenersi soddisfatti del bottino, ma soprattutto di essere usciti vivi – tranne Brian Jones – da un 1969 vissuto al limite.

Altamont, invece, con 500mila presenze sì, ma anche con quattro morti – gli altri tre sono dovuti a incidenti – e 400mila dollari di danni, pone la pietra tombale all’utopia dell’estate dell’amore.

— Onda Musicale

Tags: Mick Jagger, Brian Jones, Santana, Jefferson Airplane, Mick Taylor, Let It Bleed, Keith Richards
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