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Plastic Ono Band, l’urlo primordiale di John Lennon

30 secondi di rintocchi di una campana a morto. Così inizia la carriera solista di John Lennon nel 1970, con l’album che porta il suo nome e quello della sua band.

Il brano è Mother e le campane a morto riecheggiano il precoce lutto che avrebbe segnato tutta la vita di John, la morte della madre, anche se volerci vedere anche un’allusione alla morte dei Beatles non pare idea del tutto peregrina.

I Fab Four si erano sciolti l’anno prima – Let It Be, del 1970, era stato inciso addirittura prima di Abbey Road – e il tappo era saltato, lasciando libero sfogo solista ai quattro; Lennon uscì con questo lavoro, già così ben strutturato da rimanere forse insuperato nella discografia di Lennon, Harrison diede alle stampe addirittura un triplo album, l’ottimo All Things Must Pass, mentre Ringo Starr e Paul McCartney furono forse quelli più colti alla sprovvista. E se per il batterista la sorpresa è tutto sommato misurata, fu proprio il disco di Paul una discreta delusione, che attirò anche gli strali dello stesso Lennon.

Mother, quindi, è il pezzo che apre il disco e ne traccia subito la direzione artistica; un pezzo che rievoca non solo il lutto materno, ma anche l’assenza del padre. Il tutto filtrato attraverso la tecnica del Primal Scream. Lennon ha infatti iniziato un duro percorso dentro sé, con l’immancabile Yoko Ono al fianco, con lo psicologo Arthur Janov, inventore della cosiddetta terapia primaria. Il postulato dello psicoterapeuta è che traumi e anche malattie mentali, possano essere superati attraverso il rivivere le esperienze infantili che li hanno generati.

E l’urlo disperato di Lennon è ben udibile nella drammatica – e non si sa quanto catartica – Mother; ma anche nel finale di God, capolavoro della poetica lennoniana. La canzone sarebbe rimasta sempre croce e delizia per John, tra la bellezza del testo dove si scaglia contro l’ipocrisia religiosa e non solo, e il successo e la risonanza inferiori a quanto si sarebbe aspettato. Tra Mother e God – se si esclude il lamento finale di Mummy Is Dead che chiude il disco riaprendolo, in una struttura circolare – una manciata di canzoni che sono la summa del Lennon-pensiero.

La bella e breve Hold On, in tipico stile beatlesiano; la caustica cavalcata al vetriolo di I Found Out, tosta nell’incedere elettrico e oscuro, quanto nel testo acido e corrosivo; Working Class Hero, ballata acustica dal testo antisociale, dylaniana ma forse più bella di qualsiasi canzone abbia mai scritto Bob Dylan; l’incredibile, commovente, perfezione di una ballata come Love; ancora il rock acido di Well, well, well, segnata dal basso di Klaus Voormann.

In questo imbarazzo della scelta, capolavori minori come Isolation, Remember e Look at me fanno quasi la figura dei riempitivi; eppure sono pezzi per cui tanti cantautori di oggi darebbero un occhio.

A livello musicale Lennon/Plastic Ono Band rappresenta perfettamente il John Lennon dell’immediato post Beatles. Suoni asciutti e taglienti, in aperto contrasto con le ultime sontuose produzioni dei Beatles, ma anche con ciò che Lennon stesso farà in seguito.

La Plastic Ono Band profuma ancora fortemente di Beatles, con Ringo Starr alla batteria e Klaus Voormann al basso – questi è il grafico che disegnò, tra le altre, la copertina di Revolver – e Billy Preston che appare in un brano e aveva già collaborato coi baronetti. Lo stesso Lennon si occupa delle chitarre, dando libero sfogo alla sua passione – spesso non ricambiata – per lo strumento.

Plastic Ono Band è insomma l’inizio del viaggio solista di John, un viaggio che sappiamo tutti essere stato troppo breve, ma che rimane comunque quanto di meglio abbiano prodotto gli ex Beatles. Un lavoro sofferto ma terapeutico, un urlo primordiale che doveva – nelle intenzioni dell’artista – portare alla luce un nuovo John Lennon e che sicuramente vi riesce, almeno in parte. Ma l’album è anche una raccolta di canzoni che – prese una per una – rimangono tra le più belle della storia del rock. L’anno dopo il cantautore di Liverpool uscirà con Imagine, disco forse non di pari livello ma che contiene l’iconica title track, oltre a un classico come Jealous Guy.

Sono sicuramente i lavori migliori di Lennon, e forse dell’intera produzione post Beatles contando anche gli altri elementi.

John Lennon/Plastic Ono Band rimane però la fotografia essenziale del musicista: arrabbiato, provocatore, acido e al tempo stesso fragile.

— Onda Musicale

Tags: John Lennon, The Beatles, Ringo Starr, Paul McCartney, Billy Preston, Imagine, All Things Must Pass
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