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Achille Lauro: forse qualcuno dovrebbe dirgli che non basta travestirsi per essere un grande artista

Un po’ Marilyn Manson nel look, in po’ il primo Vasco nell’ispirazione musicale, Achille Lauro appare più geniale nei travestimenti che nella musica. Alzi la mano chi si ricorda, in ogni particolare, i look di Diodato e Tosca sul palco di Sanremo 2020. Le loro due splendide canzoni, Fai Rumore e Ho amato tutto, che hanno fatto incetta di premi della critica, erano di gran lunga più interessanti del modo in cui erano vestiti. 

Ben diverso il discorso su Achille Lauro, di cui tutti ricordano i singolari costumi griffati Gucci, ma ben poco la struttura musicale (piuttosto semplice) della sua canzone. Peccato che il travestimento non faccia del performer un artista musicale, un cantante o un genio della composizione, ma, al limite, un buon attore. Può sembrare una tautologia, se parliamo di Sanremo che, fino a prova contraria è il festival della CANZONE italiana, ma è un’ovvietà che è sfuggita alla maggior parte dei media durante la kermesse musicale. A proposito del bacio tra Achille e il suo chitarrista-alter ego Boss Doms sul palco dell’Ariston: quella scena ci è parsa una furba trovata di personal branding per riscuotere il plauso dei conformisti dell’anticonformismo in servizio permanente effettivo che, nel frattempo, si sono quasi dimenticati dell’effettivo valore della canzone. Se avete letto, com’è probabile, alcune pagelle sui quotidiani e sui siti che si occupavano del festival, non vi saranno sfuggiti i volti mediamente molto alti dati a Me ne frego, una canzone che fin dal titolo evocativo del ventennio, nasce dichiaratamente per essere divisiva e per scatenare dibattiti. 

I giudizi più ricorrenti dei critici vertono su parole come “coraggio“, “provocazione“, “arte“, “precursore“, “rivoluzionario“. Ora, capiamo che per una settimana l’Italia viva come in una sorta di bolla e che si perda l’equilibrio per valutare con il necessario distacco critico le situazioni, ma certe patenti di genialità attribuite con eccessiva facilità a Lauro De Marinis (questo il suo vero nome) ci appaiono sinceramente esagerate. Purtroppo viviamo nel paese dei Guelfi Ghibellini che, su qualsiasi tema, da Sanremo alla politica, tende a dividersi sempre tra “noi” e “loro“, tra geni e incapaci, tra buoni e cattivi, tra bianco e nero.

E pazienza se la realtà spesso si trovi all’interno di una scala di grigi. Un manicheismo muscolare che ci solleva dalla fatica dell’esercizio critico, che richiede consapevolezza, analisi, strumenti e (cosa sempre più rara) onestà intellettuale. In quest’ottica, dobbiamo riconoscere ad Achille Lauro dei meriti innegabili: il carisma, la sfacciataggine da frontman rock, la capacità di tenere alta l’attenzione del pubblico e di valorizzare al massimo le sue canzoni attraverso le performance. Nell’epoca dei social, in cui il video sta soppiantando la parola e la soglia di attenzione è ormai ridotta a pochi secondi, Lauro ha sfruttato nel migliore dei modi il medium televisivo e un proscenio pop da dieci milioni di spettatori come Sanremo per comunicare se stesso e la propria idea di spettacolo, ottenendo l’obiettivo di essere catapultato al centro sia dei discorsi da bar che delle analisi dei giornali. 

Un anno fa ho iniziato ad immaginare la mia musica in modo diverso: volevo creare una performance artistica che suscitasse emozioni forti, intense e contrastanti, qualcosa che in pochi minuti fosse in una continua evoluzione visiva ed emotiva. Un piece teatrale lunga 4 minuti»

Così Lauro si è espresso sulle sue pagine social a proposito della sua esperienza sanremese. L’accento posto sulla “performance artistica” e sulla “piece teatrale lunga 4 minuti” già rivela che le sue intenzioni siano quasi del tutto extramusicali. Ma andiamo avanti. 

Me ne frego, vado avanti, vivo, faccio: questo è il messaggio che ho voluto dare con la canzone, è questo e il senso vero della scelta dei personaggi che io, il mio coodirettore creativo Nicoló Cerioni e il mio manager&Responsabile progetto Angelo Calculli abbiamo pensato di portare sul palco dell’Ariston. Menefreghisti positivi, uomini e donne liberi da qualsiasi logica di potere personale”. 

Tutto bello. Il problema è che la performance non dovrebbe mai oscurare la canzone, ma valorizzarla, mentre nel caso di Lauro i suoi travestimenti hanno fagocitato Me ne frego, fino a renderla quasi soltanto la colonna sonora della sua esibizione teatrale. Posto che l’opus di un cantante è la sua canzone, un piccolo miracolo di parole e musica che, una volta pubblicata, acquista vita autonoma e percorre sentieri a volte imprevedibili, ci sembra che a Sanremo si sia del tutto confuso il tentativo (lodevole) di fare arte con l’arte stessa. 

Achille Lauro ha interpretato quattro personaggi: San Francesco, David Bowie, la marchesa Luisa Casati, la regina Elisabetta I. Un’idea geniale per i suoi supporter, nuovi e acquisiti, un’inutile carnevalata per i suoi detrattori. I motivi di queste scelte singolari li ha spiegati lui stesso: 

Un Santo che se ne è fregato della ricchezza e ha scelto la “libera” povertà, un cantante che se n’è fregato dei generi e delle classificazioni sessiste, una Marchesa che a dispetto del suo benessere ha scelto di vivere lei stessa come un’opera d’arte, diventando una mecenate fino a morire in povertà e una regina che ha scelto la morte, evitando di curarsi abdicando, pur di restare li a proteggere e vivere per il suo popolo»

A parte il fatto che troviamo singolare il tentativo di interpretare San Francesco con un mantello Gucci da diverse migliaia di euro e con una tutina improbabile che ricorda quella di Britney Spears in Toxic, ma il punto è che interpretare un personaggio senza incarnarne profondamente l’essenza e senza averlo in qualche modo maturato nel tempo, è solo mero trasformismo, come un Arturo Brachetti della canzone. Non è certo una novità, nella cultura pop, il riferimento ai simboli religiosi, ma in Madonna Prince apparivano più come il punto di arrivo di un processo creativo che non come una trovata spot a favore di telecamera. Anche la citazione di Ziggy Stardust, oltre che errata da un punto di vista storico visto che quell’abito verde Bowie lo indossava nel video di Life On Mars (contenuta nell’album Hunky Dory pubblicato nel 1971, un anno prima di The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars del 1972), è fuorviante. Chi ha avuto la fortuna di assistere alla mostra David Bowie Is a Bologna ha potuto apprezzare, al di là dei coloratissimi costumi, come dietro ad ogni personaggio incarnato dall’artista ci fosse un lungo processo creativo, che includeva elementi di letteratura, teatro e cinema. Emblematici, in questo senso, gli articoli ritagliati sui viaggi nello Spazio e le locandine sulla science fiction, che tanto affascinavano Bowie.

Ecco, di questo processo in Lauro vediamo solo l’output, ovvero la maschera, priva dei significati profondi che si celavano dietro ad essa. Dubitiamo fortemente che Lauro, per anni trapper non proprio raffinatissimo nelle sue liriche sghembe, conoscesse la figura di Marchesa Casati, agitatrice culturale e “opera d’arte vivente“, né quella androgina di Elisabetta I d’Inghilterra, che aveva rinunciato alla sua femminilità per l’esercizio del potere. Nel primo caso il suo vero riferimento appare Marilyn Manson di Mechanical animals, di cui ha copiato non solo il nichilismo menefreghista, ma anche gli ammiccamenti con il suo chitarrista Boss Doms.

E stiamo parlando di un immaginario risalente al 1998, ovvero a 22 anni fa. Se il look appare un confuso mix tra Marilyn Manson, Elton John e David Bowie, per quanto riguarda la musica è fin troppo evidente l’ispirazione con il rock del primo Vasco Rossi, quello che va da …Ma cosa vuoi che sia una canzone…a Colpa d’Alfredo del 1980, ravvivato da un pizzico d’elettronica alla New Order.  Anche se i primi testi di Vasco non erano certamente raffinatissimi, apparivano del tutto sinceri e genuini. Rossi, inoltre, è sempre stato dotato di una comunicativa e di una mimica facciale che, senza grandi trucchi scenici, riusciva a comunicare in modo diretto e immediato tutta la gamma delle sue emozioni, in particolare rabbia, smarrimento e malinconia. Una genuinità che non ritroviamo adesso in Lauro, dove anche gli elementi più apparentemente spontanei appaiono talvolta fin troppo studiati e sempre funzionali a una narrazione, oltre che a una rappresentazione visiva della canzone.

Lo scorso anno a Sanremo 2019 avevamo apprezzato la scanzonata Rolls Royce non solo per la sua freschezza musicale, ma anche per il suo finale, che offriva spunti sociologici interessanti. Dopo un elenco dadaista di personaggi famosi e di status symbol, reso ancora più surreale dagli ululati del Nostro, la canzone termina con un interrogativo dannatamente reale: «Di noi che sarà?» e con una sorta di preghiera laica, degna di un Pasolini 4.0 : «Dio ti prego salvaci da questi giorni, tieni da parte un posto e segnati ‘sti nomi». Un’invocazione quasi disperata, da generazione abbandonata al reddito di cittadinanza come alternativa al nulla urbano ed esistenziale, più che un inno alla droga, come ravvisato erroneamente da alcuni. Me ne frego è musicalmente molto simile a Rolls Royce, con un pizzico di elettronica e di piglio dance in più, mentre il testo appare fin troppo elementare e privo di grandi spunti di interesse.

 Già l’inizio del brano è emblematico delle sue ambizioni artistiche: «Sì, noi sì/ Noi che qui/ Siamo soli qui, noi sì/Soli qui».  Anche il ritornello, pur se molto radiofonico e catchy, non appare indimenticabile dal punto di vista delle liriche: «Oh sì sì, me ne frego/ Me ne frego/ Dimmi una bugia, me la bevo/ Sì, sono ubriaco ed annego».Lauro racconta di un uomo che viene usato dalla sua donna, una relazione tossica, affascinante e al tempo stesso pericolosa, caratterizzata da continui saliscendi emotivi, a cui si abbandona, come un trapezista senza rete, al grido di “Me ne frego“. 

Ora, non si capisce che cosa c’entrino quei travestimenti genderfluid e quegli ammiccamenti al mondo LGBT, in una canzone che chiaramente racconta di un rapporto etero. Posto che quel tipo di costumi sono già stati portati in scena negli anni Settanta da gente come David Bowie, Freddie Mercury, Elton John, Peter Gabriel e Renato Zero, quando fare leva sull’ambiguità sessuale era davvero coraggioso e perfino rischioso per la propria carriera, ci piacerebbe che un giorno anche Achille Lauro possa scrivere la sua Life on MarsBohemian RhapsodyYour songThe lamb lies down on Broadway e Il cielo, in modo da essere ricordato negli anni per una sua canzone, oltre che per i suoi look bizzarri.   (di Gabriele Antonucci – foto e fonte: LINK

— Onda Musicale

Tags: Renato Zero, Marilyn Manson, Diodato, Achille Lauro, Boss Doms, Tosca, David Bowie, Peter Gabriel, Freddie Mercury, Elton John
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