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“Sounds that nobody else has done yet”: i Beatles, Revolver e la rivoluzione musicale del 1966 [Parte Prima]

Per concludere il racconto del 1966 vissuto dai Beatles, dopo aver estesamente trattato – in tre articoli del Giugno 2019 – di quello che si sarebbe rivelato il loro ultimo, complicatissimo e rischioso tour mondiale (dalla Germania Ovest agli USA, passando per le Filippine), è d’obbligo riavvolgere il nastro tornando all’inizio di questa storia.

L’anno spartiacque nella carriera del gruppo più famoso al Mondo (memorabile anche allargando l’inquadratura al resto della scena musicale del periodo) iniziò in maniera abbastanza imprevista. Brian Epstein, il loro celeberrimo manager, si immaginava il 1966 sulla falsariga dei due anni precedenti: prevedendo che i quattro si impegnassero nel duplice compito di sfornare un film abbinato a un disco (il lato A dell’LP ne avrebbe costituito la colonna sonora). Durante l’estate, come da programma, si sarebbe svolta quella tournée che avrebbe toccato varie parti del pianeta, in primis gli Stati Uniti.

Forse Epstein, in cuor suo, credeva (senza ingenuità) che i suoi ragazzi avrebbero docilmente assecondato i suoi piani. Ahimè, si sbagliava. Se c’è una cosa che i Beatles non hanno mai fatto, è stato l’assuefarsi alla routine. Alla proposta di realizzare un film risposero in maniera decisa, declinando l’invito. I primi mesi dell’anno Brian se li era già immaginati come occupati dalle riprese del nuovo film. Ora il calendario risultava invece terribilmente vuoto. Nella storia dei Beatles sino a quel momento non era mai capitato loro di trovarsi davanti tre mesi liberi da impegni professionali.

Un mese prima che le sedute di registrazione del nuovo album prendessero avvio, ebbe luogo l’incontro con la giornalista Maureen Cleave (n. 1941). Intervistando separatamente i quattro musicisti, avrebbe realizzato per l’Evening Standard – celebre tabloid londinese – un servizio in cui tratteggiava, in maniera decisamente più articolata rispetto all’immagine stereotipata che ne circolava, un profilo della loro personalità. Come spesso accade nel mondo della carta stampata, fu in tale circostanza che nacque l’infame controversia incentrata su John Lennon.

Nelll’intervista a lui dedicata, egli aveva affermato che i Beatles erano più famosi di Gesù Cristo, (leggi l’articolo) oltre a non sapere se sarebbe finito prima il Rock’n’roll oppure il Cristianesimo”. Tali affermazioni, estrapolate dal contesto in cui erano state pronunciate, dal Vaticano furono considerate una normale spacconata giovanile, mentre non passarono inosservate nella bigotta America, dove scatenarono un putiferio che nell’immediato avrebbe dato fastidio a John e condizionato a distanza di qualche mese le date del tour in quel paese. (leggi il nostro articolo)

6 Aprile 1966: il nuovo disco inizia a prendere forma. Com’è prassi consueta, le canzoni non vengono modellate e realizzate nell’ordine a noi familiare, dato che a causa dell’imprevedibilità del processo creativo i Beatles – come nessuno del resto – non avrebbero potuto sapere che fisionomia avrebbe assunto il nuovo disco. A detta di John Lennon, il nuovo disco sarebbe stato assai diverso dai precedenti. Non era affatto una frase fatta, dal momento che durante quelle sedute della primavera ‘66 il modo di fare musica sarebbe stato stravolto (in positivo) sotto molteplici aspetti.

Dal punto di vista tecnologico”, la musica di Revolver nacque da un utilizzo davvero futuristico della strumentazione allora disponibile. Futuristico, perché le competenze di figure del calibro di George Martin (straordinario produttore ed arrangiatore) e Geoff Emerick (ingegnere del suono di smisurata bravura nonostante i suoi 20 anni) permisero ai Beatles di superare non solamente il divario con gli studi di registrazione statunitensi – mediamente più all’avanguardia – ma anche i “limiti” della strumentazione in forza allo stesso team EMI (com’erano noti gli Abbey Road Studios prima del 1970).

In altre parole, fu la vastissima creatività dei quattro musicisti, unita alle notevoli conoscenze dei “tecnici”, a consentire ad entrambi di ottenere risultati che andavano al di là di quanto era possibile fare, con il riscontro assai positivo che le innovazioni fecero scuola negli anni a venire.

Tanto per cominciare, la prima delle innovazioni ad essere impiegata fu l’ADT, cioè l’Automatic (o Artificial) Double Tracking, sistema che prevedeva la registrazione della traccia vocale contemporaneamente su due nastri, soluzione più sicura rispetto alla tecnica del cantare sopra una traccia già in precedenza eseguita, con il rischio di una non perfetta sincronia. La nascita dell’ADT fu merito di Ken Townsend.

Altra notevole innovazione fu l’idea di collegare un microfono(dispositivo di input) all’altoparlante rotante Leslie, originariamente concepito per l’organo Hammond. Il continuo ondeggiare del suono gli conferiva una maggiore “spazialità”. L’effetto lo possiamo chiaramente percepire nel brano di chiusura del disco, la magnetica “Tomorrow Never Knows”, cantata da Lennon. Il pezzo in questione si caratterizza anche per il ricorso a nastri contenenti effetti sonori, liberamente montati per creare una tessitura sonora che lo rendeva ancora più psichedelico. Si, perché non bisogna dimenticarsi che i Beatles – ma non solo, penso anche ai Pink Floyd – cercavano di tradurre in musica le esperienze vissute attraverso l’LSD.

A proposito di nastri, un’altra innovazione radicale introdotta con Revolver fu la loro riproduzione al contrario.Per fare un esempio, basti dire che il nastro su cui erano state registrate le parti strumentali o vocali da manipolare, veniva riprodotto al contrario: tale “negativo” veniva successivamente registrato, così come si poteva sentire, su un nuovo nastro vergine. Per capire di cosa sto parlando, basti ricordare le sonorità di“I’m Only Sleeping” e della già citata “Tomorrow Never Knows” – con chitarre al contrario – mentre in“Rain” (non inclusa nell’album) si può sentire una parte vocale al contrario, cantata da John.

Spostandoci nel campo dei cosidetti “effetti sonori” non possiamo certamente ignorare la giocosa Yellow Submarine, cantata da Ringo Starr ed entrata a pieno diritto tra i brani più celebri del gruppo di Liverpool. La parte più divertente nella realizzazione del brano fu il ricreare i suoni delle onde del mare e soprattutto i rumori dei macchinari del sommergibile ricorrendo ai materiali più disparati, come la campana collocata sul ponte di una nave, delle catene, una vasca di stagno riempita con acqua. A rendere più realistico il sottomarino, le frasi gridate come ordini (“Cut the cable! Drop the cable!”). A completare il tutto, l’inserimento stravagante di una breve sezione di ottoni.

Per quanto riguarda gli strumenti musicali veri e propri, in Revolver possiamo sentire un suono di una densità e profondità davvero sconosciute ai precedenti album del gruppo. Bastino due esempi: il basso di McCartney, non più il consueto Höfner 500/1, ma l’altrettanto celebre Rickenbacker 4001s, fu amplificato da Townsend attraverso il ricorso a un altoparlante utilizzato come microfono – a questo proposito un eccelso esempio è dato da un pezzo come “Paperback Writer” (non incluso nell’album); quanto alla batteria di Ringo Starr, la famosa Ludwig, il collocare un capo d’abbigliamento dentro la grancassa ne smorzò il suono, catturato in tutta la sua pienezza piazzando un microfono a soli 3 pollici da essa. Stessa cosa anche per quanto riguarda l’ottetto di archi in “Eleanor Rigby” e gli ottoni in “Got To Get Into My Life”. Nulla di simile si era mai udito in precedenza (non a caso Paul disse:“There are sounds [on Revolver] that nobody else has done yet”).

Il discorso ovviamente non finisce qui, dato che dobbiamo occuparci del disco in sè. Appuntamento quindi alla prossima puntata.

— Onda Musicale

Tags: Abbey Road Studios, Brian Epstein, Yellow Submarine, Pink Floyd, John Lennon, The Beatles, Ringo Starr, Paul McCartney, Revolver
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