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Paul Kossoff, il chitarrista più dimenticato tra i grandi

Spesso su siti che trattano la storia del rock – come il nostro – capita di leggere classifiche sui più grandi chitarristi.

Diciamolo pure, spesso queste classifiche servono solo a intavolare discussioni, meglio se costruttive, in quanto è impossibile stabilire se sia stato più grande Jimi Hendrix o Eric Clapton, o magari Jimmy Page o David Gilmour.

Un nome però manca quasi sempre tra quelli mitici citati, quello di Paul Kossoff, il chitarrista dei Free, di cui oggi ricorre l’anniversario della prematura scomparsa.

Quando quel 19 marzo del 1976 l’aereo su cui viaggiava Kossoff atterrò a Los Angeles, il chitarrista era già morto per un edema cerebrale e polmonare, anche se alcuni parlarono di infarto; poco importa, a ucciderlo furono le dipendenze che da anni l’avevano reso un tossicodipendente – quella dal famigerato Mandrax, in particolare – e l’ombra del chitarrista che ad appena 17 anni aveva dato vita a una delle band seminali dell’hard rock inglese.

Aveva iniziato a studiare la chitarra classica da bambino, Paul, dimostrando da subito doti naturali non comuni; era stato però il fortuito incontro con John Mayall, visto in un concerto, a fargli abbracciare la causa del blues, una causa comune a tanti giovani del periodo. Era il momento in cui Eric Clapton la faceva da padrone sulla scena londinese – Clapton is God, la celebre scritta risaliva a quegli anni – e ogni giovane chitarrista aveva in mente un solo desiderio, impadronirsi di una Gibson Les Paul.

Kossoff ce la fece, all’inizio con l’economica versione Junior e poi con la Les Paul vera e propria, un modello del 1954 che pare fosse appartenuta proprio a Clapton. Col suo primo gruppo, i Black Cat Bones, suonò per tutti i più famosi club di Londra, facendosi una solida fama di ragazzo prodigio e iniziando a tessere una rete di conoscenze. Aprì una serata dei Fleetwood Mac e dagli scambi con Peter Green uscì fuori un chitarrista improvvisamente maturato, pronto per la sfida di una band più importante, che andasse oltre la riproposizione pura e semplice del blues, affinato anche accompagnando il vecchio bluesman Champion Jack Dupree in un tour inglese.

All’inizio del 1968, col batterista Simon Kirke, decise di abbandonare i Black Cat Bones – che lo stesso anno registrarono lo splendido Barbed Wire Sandwich – per formare un nuovo complesso; una sera si trovarono ad assistere all’esibizione di una band, i Brown Sugar. Paul fu colpito dalla voce potente di Paul Rodgers; iniziarono la sera stessa a jammare insieme e fu amore artistico a prima vista. Reclutarono al basso un altro ragazzo prodigio, Andy Fraser, che aveva suonato con Mayall e aveva forti legami con Alexis Korner, pioniere del blues inglese.

Nascono i Free

Proprio Alexis Korner all’inizio fu fondamentale per la nuova band: “Fu proprio lui a fornirmi le prime occasioni della carriera – ricorda Fraser – a trovarmi, per esempio, l’ingaggio con Mayall. Poi, quando nacquero i Free, ci aiutò a trovare i contatti giusti e a inserirci nel giro che contava.”

Sempre Korner fu a suggerire il nome Free, tanto semplice quanto efficace, in omaggio a una sua vecchia band, i Free At Last. Messi sotto contratto dall’allora neonata Island di Chris Blackwell, e schivata la proposta di quest’ultimo di cambiare il moniker in Heavy Metal Kids, i Free – che da subito presero a suonare live senza sosta – entrarono direttamente in studio, uscendone poco dopo con Tons Of Sobs, capostipite della loro discografia.

Il disco è quello più legato al blues dei Free, nonostante qualche passaggio quasi folk, e risente in parte dell’inesperienza in sala di registrazione: “Ancora oggi sono convinto della bontà di Tons Of Sobs – ricorda Rodgers – un disco che andrebbe rivalutato alla luce di quello che il gruppo ha poi saputo dimostrare. Probabilmente il passaggio dai club allo studio di registrazione avvenne troppo bruscamente, senza darci il tempo di definire obiettivi e metodi. Blackwell era convinto che la nostra energia fosse sufficiente a compensare la totale assenza di esperienza in studio, mentre noi non eravamo in grado di esporre le nostre preoccupazioni all’unico discografico che ci aveva dato fiducia.”

Riascoltato oggi, il lavoro appare in realtà già sorprendentemente maturo, considerato che la band era composta da due diciassettenni e due diciannovenni.

Pezzi come Worry o la bellissima Walk In My Shadow anticipano i fasti futuri, coi poderosi riff di Kossoff e Fraser e l’ugola di carta vetrata di Rodgers. Wild Indian Woman e I’m A Mover sono altri due pezzi per cui molte band avrebbero fatto all’epoca carte false e che richiamavano in parte atmosfere più americane, dalle parti degli Steppenwolf. A completare il tutto un paio di numeri blues – Goin’ Down Slow e The Hunter – e il bellissimo lento Moonshine. La chitarra di Kossoff è già pienamente matura; il giovane Paul non usa pedali ed effetti particolari, né si abbandona a virtuosismi o passaggi barocchi. La sua cifra è il feeling, mai una nota di troppo o fuori posto e un suono incredibilmente saturo ottenuto lavorando sull’amplificatore che gli permette di dare vita ai suoi celebri e lunghissimi “vibrato”.

Mentre Free, secondo album, sta per uscire, la band viene reclutata per un tour americano dove Kossoff ha l’occasione di realizzare uno dei suoi sogni, conoscere Eric Clapton. I Free aprono infatti un live dei Blind Faith, dove all’epoca suonano Clapton e Steve Winwood tra gli altri; Eric e Paul fanno subito amicizia, si scambiano consigli e strumenti, e il leggendario “Slowhand” gli chiede anche quale sia il segreto del suo incredibile vibrato.

Nonostante il plauso di critica e colleghi, i Free però stentano a decollare nelle vendite, ma alla metà del 1970 sarà Fire And Water a risolvere il non trascurabile problema, soprattutto grazie al loro inno rock, All Right Now: “Alla fine di un concerto andato molto male, con poco pubblico e un’atmosfera da dimenticare – è Rodgers a parlare – ci ritrovammo sconsolati e in silenzio nei camerini. Nessuno aveva voglia di scherzare, e così Andy per sdrammatizzare la situazione si mise a canticchiare un piccolo ritornello: ‘All right now, baby it’s all right now’. Il riff ci rimase talmente impresso che, tornati in studio, ci mettemmo al lavoro, registrando una delle canzoni più belle della storia del rock.”

Un inno delle generazioni post summer of love.

Il pezzo divenne un vero inno delle generazioni post summer of love, fece dei Free delle star e permise loro di suonare all’Isola di Wight davanti a 600mila persone, in quello che convenzionalmente è ritenuto l’ultimo grande festival rock: “L’esibizione a Wight è stata una cosa indimenticabile” – ricordava spesso Andy Fraser – anche lui scomparso qualche anno fa – con commozione.

Tuttavia il periodo di grande successo fu un po’ l’inizio della fine, soprattutto a causa delle dipendenze sempre più pesanti di Paul Kossoff. Il chitarrista era deluso per il predominio in fase di composizione della coppia Rodgers-Fraser, e in più era rimasto straziato dalla morte di Jimi Hendrix, suo idolo e anche buon amico. Kossoff meditava di andarsene per formare una nuova band, e così anche Rodgers e Fraser.

Dopo il fallimentare Highway il gruppo si sciolse una prima volta, per poi riformarsi poco dopo e registrare Free At Last, un lavoro condizionato dalle precarie condizioni di Paul Kossoff, che infatti suona in pochi brani; Fraser tentò anche con le maniere forti di aiutarlo a disintossicarsi, ma fu tutto inutile. La band si sciolse, stavolta definitivamente.

Racconta Fraser: “Si è fatto un gran parlare al tempo sul nostro scioglimento, ma la verità fu che la nostra spinta creativa si era esaurita. La tossicodipendenza di Paul è stata solo una scusa, una reazione ai problemi che già esistevano all’interno del gruppo. Non ci siamo separati per colpa di Kossoff, ma perché era arrivato il tempo di dire basta.”

Rodgers e Kirke formarono i Bad Company, un’altra formazione di buon successo, mentre Kossoff incise alcuni lavori solisti, uno a nome Kossoff, Kirke, Tetsu & Rabbit e un paio con i Back Street Crawler. Tentò più volte di ripulirsi dalle droghe, ma il fisico era ormai allo stremo: nel 1975 collassò sul palco durante un concerto in Inghilterra e fu salvato solo grazie all’intervento dei medici presenti. Proseguì così fino al tragico volo del marzo ’76.

Quel giorno se ne andò il genio di Paul Kossoff, tanto sregolato nei suoi eccessi da rockstar quanto misurato sul palco, col suo stile pieno di feeling ma votato al “lessi is more”. Una tragedia umana e per la musica, per il suo talento che seppe solo in parte sfruttare e che dissipò nel vortice delle dipendenze.

Ma che ci ha comunque lasciato una serie di tesori da riscoprire.

— Onda Musicale

Tags: David Gilmour, Free, Jimi Hendrix, Steve Winwood, Gibson Les Paul, Chitarrista, Jimmy Page, John Mayall, Bad Company, Paul Rodgers, Eric Clapton, Peter Green
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