In primo piano

The Dark Side Of The Moon, il capolavoro immortale dei Pink Floyd

Quando nel marzo del 1973 – prima nei negozi americani e poi in quelli britannici – apparve tra gli scaffali un disco con la copertina nera e un prisma che trasformava un raggio di luce in un altro iridato, The Dark Side Of The Moon non era esattamente un oggetto sconosciuto.

Già dalla fine del novembre 1971 i Pink Floyd avevano iniziato a suonare alcuni scampoli di quello che sarebbe diventato il loro disco più celebrato; per essere precisi, nell’ultima data del tour americano, a Cincinnati il 20 novembre, durante The Embryo, Waters e soci inserirono una lunga improvvisazione in cui venivano brevemente lambiti molti dei temi che si ritroveranno in Dark Side. Alla fine dello stesso mese la band si ritrovò negli studi della Decca, a West Hampstead, per fare il punto della situazione e dare vita a nuovo materiale da portare nel già progettato tour successivo.

Roger Waters

Era nel pieno del suo periodo di più limpida creatività, ma anche Gilmour, Mason e Wright erano musicisti in stato di grazia; la coesione interna ai Pink Floyd non sarà mai più così efficace. Waters in particolare era una fucina di idee. Il suo obiettivo era quello di scostarsi dall’alternative a tutti i costi, e di abbandonare le tematiche psichedeliche e spaziali dei primi dischi, per concentrarsi su argomenti più concreti e vicini alla vita del loro pubblico. Era l’alienazione il tema più caro a Waters, da sempre titolare di una mente tra le più complesse della storia del rock, tanto sensibile nell’analizzare argomenti delicati quanto schizofrenico e dittatoriale nell’approccio con la band; l’idea dell’alienazione mentale non era certo priva di contatti con la vicenda di Syd Barrett, e coi sensi di colpa che Roger non fece mai mistero di avere per avere estromesso il fondatore dei Pink Floyd dalla sua creatura; eppure erano sicuramente stati anche i paurosi ritmi dei lunghi tour a far scaturire quella scintilla di follia, di estraniamento dalla vita comune, che avrebbero dato vita e corpo al loro concept più ambizioso.

Va detto che molto materiale su cui il gruppo si mise al lavoro era già frutto di sedute ed esperienze precedenti. Ad esempio Breathe era stata composta da Waters per un documentario, mentre il pezzo pianistico alla base di Us And Them era una composizione di Wright, pensata per Zabriskie Point ma rifiutata da Michelangelo Antonioni (che la riteneva troppo triste).

Forti di alcune sedute presso uno studio dei Rolling Stones, nel quartiere londinese di Bermondsey, i Floyd completarono una prima stesura del concept nelle prime settimane del 1972. L’opera si presentava con grandi potenzialità, ma il complesso decise – diversamente da quanto fatto precedentemente – che portarla in tour avrebbe aiutato a capirne la vera natura, così da sgrezzare e smussare le asperità laddove se ne fosse presentata la necessità.

La scelta fu vincente, e nonostante una serie di inconvenienti che funestarono le prime uscite ufficiali dell’opera – tra black out e impianti che saltavano – la versione embrionale di Dark Side fu un successo. Basta cercare in rete le prime versioni di Time o di The Great Gig In The Sky (allora chiamata Mortality Sequence), per rendersi conto degli enormi cambiamenti del prodotto finito.

Un’altra cosa che pochi sanno è che il disco, il cui titolo di lavorazione era The Dark Side Of The Moon, A Piece For Assorted Lunatics, rischiò per un po’ di tempo di intitolarsi semplicemente Eclipse. All’epoca, infatti, una misconosciuta blues band – i Medicine Head – uscì con un disco dal familiare nome di The Dark Side Of The Moon, causando non pochi grattacapi ai quattro di Cambridge, che già da tempo erano d’accordo sul titolo. Alla fine il lavoro dei Medicine Head passò talmente inosservato che il problema si risolse da solo.

Il lato oscuro della luna, una questione che aveva fatto almanaccare generazioni di romantici e scienziati, era all’epoca già ampiamente risolta: il 7 ottobre del 1959 – quasi quindici anni prima – la sonda sovietica Lunik 3 aveva finalmente sorvolato e fotografato lo sconosciuto sito, rivelando che tutte le dicerie che da sempre lo accompagnavano erano infondate. Se nessun mistero si celava sul lato nascosto del satellite, immutato rimase il fascino dell’espressione a cui ricorse la band. E quando finalmente il disco arrivò nei negozi il momento fu epico, nulla nel mondo del rock sarebbe più stato lo stesso.

L’apertura è affidata a Speak To Me, una breve intro fatta di suoni concreti – un battito cardiaco, delle risate, un registratore di cassa, urla – che scemano in Breathe, una quieta riflessione guidata dalla liquida e pacata chitarra di David Gilmour. Le atmosfere sono rilassate, i bordi della musica appaiono talmente sfumati da sembrare quasi fatti di vaporose nuvole. Rick Wright, nel tentativo di rendere meno canonico il pezzo, inserisce – da grande cultore del jazz – un accordo mutuato da Kind Of Blue di Miles Davis, ad aggiungere quel tocco di indefinito.

Il verso “Run, rabbit run/Dig that hole, forget the sun” sembra quasi alludere al Bianconiglio di Alice nel paese delle meraviglie; quasi come se il coniglio ci trascinasse in una dimensione incantata. Ed è così, per certi versi, col ritorno dei suoni concreti nella seminale On The Run che introduce i ticchettii di Time, uno dei pezzi più belli dell’intero repertorio dei Pink Floyd.

Parlare di Time è imbarazzante, qualsiasi aggettivo risulterebbe ridondante; pur con una struttura musicale semplice, senza andare mai sopra le righe, il pezzo è pura magia. Il testo, una riflessione amara sul passare del tempo, non manca di passaggi non trascurabili a livello letterario (“Hanging on in quiet desperation is the english way” su tutti), ma è l’assolo di David Gilmour a dominare la scena. Il suo suono è tanto cristallino quanto essenziale, forse ruffiano nel cercare certi ganci melodici, ma pare davvero di vedere la luce del prisma scomporsi e dividersi in mille luci e suoni diversi, per poi ricomporsi e riportare il tutto agli ultimi, rabbiosi versi.

Chiude quello che allora era il lato “A” del vinile, dopo una serena ripresa di Breathe, la celebre The Great Gig In The Sky. Composizione anche questa del sottovalutato ma importantissimo Wright e impreziosita dalla prestazione vocale di Clare Torry, (leggi l’articolo) il pezzo divenne per un periodo inopinatamente la canzone preferita per i sex show del quartiere a luci rosse di Amsterdam. Al di là di ciò, il brano è ancora oggi celebre e vera palestra per i virtuosismi vocali delle cantanti.

La seconda facciata si apre con l’iconica Money, una riflessione sul potere dei soldi, messa in forma di uno sghembo blues in 7/8, col celebre giro di basso di Roger Waters e un paio di micidiali solo di Gilmour e del sax di Dick Parry. Money fu scelto come singolo e fu quello che fino ad allora era mancato alla band: un grandissimo successo, capace di rendere universale il loro lavoro che – non dimentichiamolo – a quel punto era ancora un culto di grande qualità, ma ancora ai confini dell’alt rock.

Money rese i Pink Floyd un supergruppo di successo, come lo erano stati i Beatles e i Led Zeppelin e – ironia della sorte – gli fece incassare una vagonata di quei quattrini che il pezzo tanto criticava, a partire dalla celebre intro concreta col suono di un registratore di cassa.

Dopo Money ci addentriamo nella parte forse meno celebrata di Dark Side, ma forse di qualità ancor maggiore; Us And Them, aperta da un organo da chiesa, ritorna alle atmosfere liquide, oniriche e quasi soprannaturalmente rallentate di inizio disco; il sax di Parry sembra amoreggiare col tappeto sonoro messo in campo dalla band. Il testo evoca la possibilità di empatia tra gli uomini, con una serie di contrasti che sfociano in un ritornello epico davvero sontuoso. Un pezzo i cui elementi rimangono in un misterioso equilibrio, tanto centrato da sembrare quasi la magia di un prestigiatore; l’unico trucco, però, è quello di un gruppo in evidente – e irripetibile – stato di grazia.

Il brano si trasforma senza soluzione di continuità nella strabiliante Any Colour You Like, con Wright ancora sugli scudi; la sua iridescente cascata di tastiere elettroniche si spande su una bella prestazione alla batteria di Nick Mason e precede una parte di chitarra estremamente psichedelica e ispirata di Gilmour; un pezzo che più di altri riecheggia le esperienze progressive dei Pink Floyd dei dischi precedenti, poco più di tre minuti di puro godimento sonoro.

Il lavoro si avvia così alla sontuosa chiusura con gli ultimi due pezzi, Brain Damage e Eclipse. Il primo è una delle vette floydiane, il brano in cui Waters spinge il confronto con sé stesso e con le due parti di ognuno alle estreme conseguenze.

Impossibile non vedere Syd Barrett e il suo senno perduto nei versi conclusivi, gli unici in cui viene citato il titolo: “And if the band you’re in starts playing different tunes/I’ll see you on the dark side of the moon”. Il miracolo è sempre lo stesso, l’incredibile equilibrio tra musiche di eccezionale qualità ma fruibili al tempo stesso, e testi che indagano la follia e l’alienazione come mai era stato fatto in un’opera sostanzialmente pop.

Eclipse, col suo ostinato elenco di azioni in contrasto tra loro – tutte inutili, tutte eclissate dalla luna – chiude il disco così come era iniziato, in un eterno circolo che sembra quasi riecheggiare il finale di 2001: Odissea nello spazio, col battito cardiaco e la frase pronunciata da Gerry O’Driscoll, portinaio di Abbey Road: “Non c’è un lato oscuro della luna, infatti è tutto oscuro”.

Come concludere una cavalcata attraverso il disco forse più importante della storia, nonostante qualche ingenua stroncatura di critici della domenica che si può leggere qua e là in rete? L’unico modo è col giudizio sull’opera dello stesso deus ex machina, Roger Waters: “È molto ben bilanciato e ben costruito, dinamicamente e musicalmente, e credo che l’umanità del suo approccio sia appagante, soddisfacente. Ho sempre pensato che sarebbe stato di straordinario successo. Ho avuto la stessa sensazione con The Wall. Ma naturalmente The Dark Side Of The Moon è il disco dei Pink Floyd una volta per tutte. Avere così tanto successo è lo scopo di ogni band, e una volta che lo ottieni è fatta, e tutto finisce. Col senno di poi, sono convinto che i Pink Floyd finirono allora”.

Si può essere o meno d’accordo con le parole, sempre lapidarie, del bassista, tuttavia è innegabile che Dark Side sia l’ultimo lavoro in cui ci sono quattro insuperabili musicisti tutti uniti verso lo stesso obiettivo, mentre nei successivi preponderante sarà l’impronta di Roger Waters.

E col fatto che The Dark Side Of The Moon rimanga un’insuperabile pietra miliare della storia non solo del rock e del pop, ma della musica tutta.

— Onda Musicale

Tags: Rick Wright, Pink Floyd, The Rolling Stones, David Gilmour, Roger Waters, Nick Mason, Syd Barrett, Eclipse
Sponsorizzato
Leggi anche
Peter Green’s Fleetwood Mac, il debutto della mitica band
Donna Summer, the “Queen of Disco”