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Deep Purple In Rock: il monumento dell’hard rock

Quando, nel 1970, esce Deep Purple In Rock, si è nel bel mezzo di una storia che si sta scrivendo proprio in quei giorni, quella dell’hard rock.

Tutto ciò che oggi diamo per scontato, era allora in nuce; la sacra triade del genere, ovvero i Led Zeppelin, i Black Sabbath e – appunto – i Deep Purple, erano all’epoca ancora ai primi vagiti.

I Led Zeppelin avevano pubblicato il primo album, quello che però – giustamente – gli storici ascrivono più al rock blues che all’hard, e si accingevano a dargli un seguito col secondo capitolo, ancora blueseggiante ma già più spigoloso; i Black Sabbath in quel 1970 avrebbero pubblicato l’eponimo esordio e Paranoid, mentre i Deep Purple, pur avendo la storia discografica più lunga tra i tre, erano all’esordio con la formazione Mk2, quella che farà la storia del rock.

I tre gruppi ben descrivono le diverse anime del nascente fenomeno del rock duro, di cui – al netto di proto band come Blue Cheer e Sir Lord Baltimore – furono veri pionieri; i Led Zeppelin rappresentavano l’anima più sperimentale, con l’amore per il folk che si mischiava al blues ad alti ottani e ad atmosfere tra fantasy ed esoterico; i Black Sabbath erano forse i meno tecnici e, pur rifacendosi in modo più smaccato e pesante agli stilemi blues, inventarono l’approccio dark e occulto nei testi e una pesantezza nella parte ritmica che avrebbe fatto scuola per anni tra gli adepti metal.

I Deep Purple, nati dall’incontro tra il tastierista Jon Lord – diviso tra amore per le partiture classiche e rock – e il chitarrista Ritchie Blackmore, il più slegato dal blues dei grandi strumentisti del periodo, erano invece sospesi tra tanti generi, faticando a trovare una personalità ben marcata. Il primo lavoro, Shades Of Deep Purple, bazzicava tra rock psichedelico e i nascenti aneliti prog dei Vanilla Fudge, proponendo cover dei Beatles e di Ike e Tina Turner, ma anche un rock duro anticipatore dei futuri suoni come Mandrake Root. Il successo di Hush, un’altra cover quasi pop, confuse ulteriormente le idee. Quando Blackmore e Lord decisero di operare un rimpasto nella formazione – Ian Gillan alla voce al posto del bravo ma poco carismatico Rod Evans e Roger Glover al basso al posto di Nick Simper – le basi della leggenda erano poste.

La band subito ingranò; Gillan era un ottimo frontman e la sua voce non era seconda, seppur diversissima, a quella di Robert Plant; Glover era un bassista tutt’altro che virtuoso, ma solido al punto giusto per reggere le divagazioni barocche di Blackmore e Lord. Evaso il progetto per band e orchestra – tra i primi del genere – tanto caro a Lord (piacevole ma tutto sommato evanescente), i Deep Purple Mk2 poterono dedicarsi a riscrivere le regole dell’hard rock.

Deep Purple In Rock si apre con una cascata di suoni sparati a volume mai sentito, con la folle chitarra di Ritchie a spadroneggiare, per poi lasciare spazio ad atmosfere più classiche e placide con le tastiere di Jon Lord: è solo il preambolo a Speed King, uno dei pezzi paradigmatici del sound del gruppo e dell’hard rock stesso. Una cavalcata rock con Ian Gillan che rievoca i miti del rock’n’roll tra vocalizzi strozzati e le sue caratteristiche roboanti vocali tirate allo spasimo, tanto da saturare i microfoni analogici dell’epoca. Come da canovaccio, chitarra e tastiere dialogano e poi si dividono gli assolo.

Blackmore è un chitarrista dotato di grande inventiva avulsa dagli schemi blues e che riesce sempre a ricamare melodie sorprendenti all’interno di un genere che rimane comunque nei confini hard; solo l’eccessivo uso della leva del vibrato a volte lo fa “sbrodolare” un po’ troppo.

Si prosegue con Bloodsucker, un pezzo killer dal riff più pesantemente blues e le urla dissennate di Gillan; il brano è di nuovo una buona base per le evoluzioni degli strumentisti, specie per l’organo di Lord.

La successiva Child In Time è il tipico pezzo che da solo vale un’intera discografia, la Stairway To Heaven dei Deep Purple. Si tratta di una cavalcata blues che parte lenta – con l’iconico riff “rubato” in toto a It’s A Beautiful Day dei Bombay Calling – per poi salire pian piano e trasformarsi in un tour de force elettrico di dieci minuti, dove ogni strumento troverà il giusto spazio. Le urla belluine di Gillan fanno ancora oggi accapponare la pelle.

Si prosegue con Flight Of The Rat, altra lunga cavalcata stavolta più tipicamente nei canoni dell’hard rock, ennesima occasione per Blackmore di sfoggiare la sua stupefacente e velocissima tecnica alla sei corde. Into The Fire è di nuovo un pezzo dalle atmosfere bluesy, forse un po’ inferiore ai precedenti, ma non potrebbe essere altrimenti. Living Wreck è un brano con suggestioni quasi soul e più melodico; qui i Deep Purple somigliano molto di più a quelli degli album Mk1, egualmente efficaci ma forse meno caratterizzati e troppo sospesi tra i generi per colpire come nei brani precedenti. La chiusura di Hard Lovin’ Man propone una band perfettamente affiatata in un pezzo che sfoggia l’incedere che sarà tipico di tanto heavy metal a venire, ma che allora rappresentava una novità quasi assoluta.

In Rock è in definitiva una pietra miliare dell’hard rock, un disco monumentale – in tutti i sensi, vista l’iconica cover dove i musicisti si sostituiscono ironicamente ai presidenti scolpiti sul Monte Rushmore – che si pone al vertice della trilogia Mk2 che comprende i successivi Fireball e Machine Head. I Deep Purple non sfoggiano forse le innovazioni degli Zeppelin e la marcata caratterizzazione dei Black Sabbath, ma sono i più duttili a passare da un’atmosfera all’altra. Pensate che all’epoca dell’uscita, molti critici catalogarono l’album nel filone nascente del rock progressivo, ed effettivamente alcune parti, specie strumentali, non sfigurano nel genere.

A ulteriore riprova, poco tempo fa, Ian Gillan ha dichiarato che uno dei suoi rimpianti sulla storia dei Deep Purple è il fatto che siano ormai accostati solo alla storia del futuro heavy metal, mentre all’epoca il loro intento era quello di travalicare i generi, col solo faro della creatività.

— Onda Musicale

Tags: Deep Purple, Ian Gillan, Led Zeppelin, Black Sabbath, Robert Plant, Roger Glover, Jon Lord, Rod Evans
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