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Peter Green’s Fleetwood Mac, il debutto della mitica band

Peter Green Fleetwood Mac

Era aprile, nel 1967, quando nacquero i Fleetwood Mac, una vera e propria istituzione del rock inglese prima, e americano poi.

Privo di mezzo cognome, Peter Green è il sottovalutato, e a volte dimenticato, quarto vertice del chitarrismo blues britannico; anzi, per alcuni Green fu addirittura superiore per ispirazione ai coevi Eric Clapton, Jimmy Page e Jeff Beck, prima di impazzire e abbandonare i Fleetwood Mac in una vicenda che ricorda quelle di Syd Barrett e Brian Jones e che gli ha guadagnato il titolo di “crazy diamond” del blues.

La prima formazione dei Fleetwood Mac era dedita a un british blues ortodosso e rivoluzionario al tempo stesso, estremamente lontano dal suono laccato e quasi pop che avrebbe garantito alla band un successo milionario tra anni ’70 e ’80, ed era nata per iniziativa di Peter Greenbaum.

Ma andiamo con ordine; la vicenda di Peter Green è legata a doppio filo proprio a quella di Eric Clapton. Quando “Slowhand”, allora alla corte di John Mayall, in preda alla confusione abbandonò la band per fuggire in Grecia, fu proprio Green a sostituirlo. Le cose con Mayall andarono bene da subito, ma dopo appena tre settimane Clapton tornò a riprendersi il posto. Erano i tempi di “Clapton is God”, la celebre scritta sui muri di Londra, e il buon Eric poteva permettersi questo e altro, tanto che al ritorno registrò quella pietra miliare del blues che è tuttora “John Mayall with the Bluesbreakers”. Ma Clapton era comunque irrequieto, e quando abbandonò di nuovo John per formare i Cream, il patriarca del british blues si ricordò di quel ragazzo fin troppo introverso, e richiamò Peter nella band.

Mayall e Green registrarono solo un disco insieme, il bellissimo “A Hard Road”, in cui il maestro lasciava grande spazio al chitarrista, permettendogli di elaborare un suo stile peculiare, in risalto specie nello stupendo strumentale “The Supernatural”. Ma soprattutto fu proprio il regalo che John gli volle fare per il compleanno a gettare i semi per la nascita dei Fleetwood Mac: Mayall pagò a Green alcune ore in sala di registrazione, e dalla jam con John McVie e Mick Fleetwood, basso e batteria dei Bluesbreakers, venne partorita l’idea di formare una band.

Quando Mayall gli regalò quelle orea parlare è McVieGreen chiamò Mick e il sottoscritto con il solo scopo di trascorrere un po’ di tempo suonando del blues. Poi, con il passare dei minuti, la jam si fece sempre più interessante e alla fine, visto lo straordinario affiatamento raggiunto, decidemmo di dar vita a un gruppo.”

Tuttavia inizialmente fu proprio McVie a tirarsi indietro, sostituito da Bob Brunning, ma presto tornò sui suoi passi – forse per la deriva jazz intrapresa da Mayall – e i Fleetwood Mac nacquero.

Peter Green era un personaggio molto particolare, tanto creativo e istrionico con la sei corde tra le mani, quanto introverso ed enigmatico nella sfera personale; aveva abbracciato il blues come una fede, forse per superare oscuri traumi giovanili, e sapeva tirare fuori fraseggi unici all’epoca, tanto da far dire a B.B. King che Green era “l’unico a farmi sudare freddo quando lo ascolto”. Miscelando sapientemente scale pentatoniche e minori con un blues a volte ortodosso, a volte sperimentale e dai ritmi quasi latineggianti, e un suono rotondo e delicato lontano da quello ipersaturo di Clapton, Peter diede vita a qualcosa di mai sentito prima. Da subito la band pubblicò dei singoli che proponevano il rivoluzionario mix – la latineggiante “Black Magic Woman”, poi ripresa da Santana, per dire – mentre sulla lunga distanza si mantenne più sul sicuro, tanto che il loro album di debutto può definirsi uno dei dischi di blues britannico più tradizionali del periodo.

Per l’esordio – eponimo e accreditato ai Peter Green’s Fleetwood Mac – la line up si arricchì di Jeremy Spencer, un chitarrista specializzato con la slide, ossessionato da Elmore James ed Elvis Presley e dal cantato perennemente sopra le righe.

Il lavoro si apre proprio con un pezzo di Jeremy Spencer, “My Heart Beat Like A Hammer”, con la slide e la voce sparata a mille. Con “Merry Go Round” si entra subito nel vivo; si tratta di una composizione di Green, un classico slow blues dove la chitarra di Peter si produce nei suoi celebri fraseggi, qui particolarmente fedeli ai pattern del blues. La successiva “Long Grey Mare” si rifà pedissequamente alla celebre “Killing Floor” di Howlin’ Wolf, con Green che offre un’ottima prova all’armonica a bocca. “Hellhound On My Trail” è l’immancabile tributo a Robert Johnson, con una sentita e riuscita versione piano e voce di Jeremy Spencer in totale solitaria.

Spencer, stavolta in versione elettrica e sopra le righe, anima anche la scatenata “Shake Your Moneymaker”, mentre Green si riprende la scena con la cupa e bellissima “Looking For Somebody” e soprattutto con “I Loved Another Woman”, sicuramente il pezzo più interessante dell’album, un lento dalle delicate atmosfere latine, quasi un calypso, simili a quelle di “Black Magic Woman” e vagamente debitrici a “All Your Love” di Otis Rush.

Nel brano Green inserisce alcuni fraseggi chitarristici che faranno scuola e diventeranno emblematici del suo stile all’insegna di un lirismo mai sentito nel blues. Tra brani che si somigliano un po’ troppo tra loro, c’è ancora spazio per una gemma, il downhome blues acustico di “World Keep On Turning”, che suggerirà forse più di un’ispirazione – opportunamente elettrificata – alla “Voodoo Child” di Jimi Hendrix.

Il disco vende bene e il successivo “Mr. Wonderful”, simile ma con aggiunta di fiati, replica. Come detto, sono i singoli a svelare l’anima più all’avanguardia di Green, con autentici capolavori come “Oh Well”, “The Green Manalishi” e “Albatross”, strumentale di grandissimo successo. Il terzo album, “Then Play On”, tenterà con buon successo di unire le due anime anche su un album, ma sarà il canto del cigno della formazione originale. Jeremy Spencer, ligio alle sue monotematiche ispirazioni, viene messo in minoranza – anche per l’arrivo del giovanissimo Danny Kirwan – dagli aneliti più sperimentali dei compagni; una pesante crisi personale e la decisione di unirsi alla setta dei Bambini di Dio faranno il resto.

Green dal canto suo è sempre più preso dal rifiuto dello show business e dal consumo smodato di LSD. Presto la sua mente già offuscata precipita, complice la droga, nelle spire della schizofrenia: abbandonata la band e registrato il folle capolavoro “The End Of The Game” sparisce piano piano di scena, affievolendosi in sempre più rare collaborazioni e lasciando la band. Riapparirà come solista negli anni ’80 – dopo varie peripezie psichiatriche – e col suo Splinter Group negli anni ’90 e 2000, ma non sarà mai più all’altezza del suo talento.

Non voleva più essere un idolo, non riusciva più a sopportare la pressione e aveva individuato nella scena rock il suo principale nemico” – ricorderà anni dopo John McVie.

Da allora i Fleetwood Mac, dopo una serie di cambi di formazione e un iniziale periodo di sfascio, eleggeranno la California a patria d’adozione e realizzeranno album milionari, svendendo però al mercato l’iniziale ispirazione blues.

— Onda Musicale

Tags: Peter Green, Fleetwood Mac, Mick Fleetwood, John McVie, John Mayall
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