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“More” dei Pink Floyd: album minore o snodo cruciale?

Raccontando la storia di “Ummagumma” vi abbiamo tracciato un quadro abbastanza esaustivo del 1969 dei Pink Floyd, eppure quell’anno uscì anche un altro album del quartetto di Cambridge, “More – Soundtrack from the film”.

Il progetto nacque grazie alla chiamata del regista francese Barbet Schroeder e il disco, costituito per metà da canzoni e per metà da strumentali, era appunto la colonna sonora del film “More”.

Facciamo un breve passo indietro e caliamoci nel contesto di quell’anno; i Pink Floyd all’epoca non sono certo le celebrità che diventeranno qualche anno dopo, essendo reduci dal loro secondo album – “A Saucerful Of Secrets” – e dal terribile scossone provocato dalla defezione del primo leader, Syd Barrett. La Emi, che punta molto su di loro, fa pressioni per avere un nuovo disco di inediti, ma i quattro ragazzi sono molto indecisi sul da farsi e su quale direzione prendere a livello compositivo. La proposta di Schroeder arriva nei primi mesi dell’anno e la dichiarazione di David Gilmour ci cala bene nel clima del momento e del pragmatismo della band: “Non che volessimo abbandonare il rock’n’roll, si trattava più che altro di fare esercizio. Produrre musica da film era una strada che pensavamo di poter proseguire.”

Nei mesi successivi i Pink Floyd sono occupati a portare in tour le due suite “The Journey” e “The Man”; tra esperimenti, bizzarrie e disavventure tecniche tipiche di quel periodo avanguardistico, nei live nascono alcuni pezzi che tracciano la futura direzione musicale e che finiranno nei lavori successivi. Le esperienze della band nel campo delle colonne sonore, in quel momento si limitano alla pellicola sperimentale “The Committee”, film a basso costo che non era mai stato distribuito nei canali ufficiali e che aveva per protagonista Paul Jones dei Manfred Mann. Altre prove nell’ambito della musica d’accompagnamento erano quelle per conto del Professore Mike Leonard, loro padrone di casa a Londra e attivo nel campo della divulgazione scientifica.

Il docente era solito preparare dei filmati che venivano diffusi all’Hornsey College Of Art e nel celebre programma divulgativo della BBC “Tomorrow’s World”. I Pink Floyd si occupavano di suonare tappeti e sfondi sonori. La proposta di collaborazione di Barbet Schroeder è dunque accettata con entusiasmo dal complesso – anche perché la paga è di 600 sterline a testa – ma meno ben vista dalla Emi, che preferirebbe un vero disco.

La casa discografica dice sì a malincuore, ma non concede gli studi di Abbey Road, dirottando il gruppo sui meno prestigiosi Pye Studios di Marble Arch. I Pink Floyd entrano in studio a marzo e vi restano in full immersion per nove giorni, uscendone con tredici pezzi. L’esperienza è molto formativa per la band, anche grazie al budget a basso costo concesso dalla Emi; Roger Waters e soci scoprono l’arte di arrangiarsi, tanto che – mancando una macchina per il conteggio dei fotogrammi – i musicisti devono dotarsi di un cronometro manuale per calcolare la durata delle sequenze da musicare. Non solo, infatti se fino ad allora erano stati piuttosto pigri in sala di registrazione, messi alle strette e con tempi da rispettare i giovani scoprono di riuscire a cavarsela piuttosto bene, e Waters inizia a prendere il sopravvento in virtù di una superiore capacità compositiva.

Barbet Schroeder è entusiasta della collaborazione, sia a livello musicale che umano; i Pink Floyd lo sono altrettanto, al punto da pensare forse che scrivere colonne sonore sia una passeggiata. Avranno occasione di rivedere questa convinzione di lì a pochissimo, con la travagliata collaborazione con Michelangelo Antonioni per “Zabriskie Point”, e anche la rinnovata joint venture di tre anni dopo con Schroeder per “La Vallée” non sarà priva di intoppi. Ma quella volta, come detto, tutto fila liscio: con qualche modifica la colonna sonora è pronta già a marzo, il film esce a maggio e il disco a giugno, finendo inaspettatamente nella top ten inglese.

Il film è ambientato a Ibiza e narra una vicenda perfettamente calata nell’epoca, l’amore distruttivo tra un giovane e una ragazza tossicodipendente; Ibiza nel 1969 non era certo la meta turistica da “movida” di oggi, ma la capitale europea degli hippies, paradiso per figli dei fiori e pusher; i primi dediti alla pace, la meditazione e l’amore libero, i secondi a fare buoni affari fornendo le sostanze necessarie ai loro trip lisergici. La protagonista è Mimsy Farmer, che poco dopo diverrà popolare in Italia con “Quattro mosche di velluto grigio” di Dario Argento e alcune altre pellicole del filone “thriller all’italiana”.

Schroeder si era formato con Jean Luc Godard, alla scuola della Novelle Vague e, rispettando pienamente lo stile del maestro, traccia un ritratto talmente asciutto da sembrare quasi un reportage. Le musiche dei Pink Floyd sono utilizzate in modo magistrale, spesso in modo diegetico, e sottolineano in modo perfetto temi e ambientazioni. L’ancora bigotta Inghilterra mal digerisce i temi scabrosi del film, che circola in modo inconsistente, mentre la pellicola in Francia è un successo, tanto da garantire solida fama ai Pink Floyd. Successo che si tradurrà in ripetuti e acclamati tour oltremanica.

Ma passiamo ad esaminare “More” come disco. I pezzi sono equamente divisi tra strumentali, alcuni dei quali ideati esclusivamente per sottolineare le scene del film. Tra questi abbiamo “Up The Khyber” (Il Khyber è un impegnativo passo montano dell’Afghanistan, ma anche un colorito e irripetibile modo di dire gergale inglese), una vera jam session jazz tra le tastiere di Wright e la batteria di Mason; “More Blues” è una divagazione blues di David Gilmour, con gli altri strumenti che accompagnano stoppandosi di tanto in tanto. All’epoca il passato di chitarrista rock blues di David è ancora molto recente, e in questo breve strumentale il giovane si diverte a imitare in modo indolente le sonorità di Eric Clapton, indiscusso dio inglese dalla chitarra blues; “Quicksilver” è il pezzo più lungo, musica puramente concreta con Rick Wright in evidenza.

Sono però le canzoni di “More” quelle che fanno la differenza e che rendono il disco un irrinunciabile documento storico dell’evoluzione dei Pink Floyd.

Cirrus Minor”, che apre il disco, innanzitutto; si tratta di una ballata acustica dalla particolare melodia, forse una delle migliori ballate del canzoniere dei Pink Floyd. Il pezzo si apre con effetti ambientali e uccellini che cinguettano, anticipando il capolavoro watersiano “Grantchester Meadows” che di lì a poco apparirà su “Ummagumma”. La voce riverberata declama gli scarni versi prima che una straniante parte d’organo di Richard Wright precipiti il tutto in un’atmosfera psichedelica, a tratti onirica e a tratti quasi gotica: un piccolo capolavoro.

Per “The Nile Song” si è giustamente parlato di proto heavy metal e indubbiamente la canzone è il passaggio più vicino all’hard rock della discografia dei Pink Floyd. Narra la leggenda che David Gilmour, ancora ben lontano dal trovare la sua proverbiale cifra stilistica, si fosse dedicato ad alcol e cannabis per meglio calarsi nella vicenda del film. Verità o mito? Chi può dirlo, certo è che il buon David mai più apparirà così feroce alla parte vocale – quasi metal davvero – e nei fraseggi distorti e hard della sua sei corde. Una replica leggermente meno forsennata arriverà più in là nel disco con “Ibiza Bar”, quasi una reprise di questo brano.

Green Is The Colour” è un’altra ballata bucolica con molto potenziale ma la cui resa non è perfetta, col falsetto non troppo sicuro di Gilmour – che canta nonostante il pezzo sia di Waters – e gli svolazzi al flauto della moglie di Nick Mason, Lindy. La canzone anticipa future ballate come “If” e “Fat Old Sun”, ed è comunque importante perché propone qualcosa che all’epoca è inedito per la band.

Cymbaline” è – con “Cirrus Minor” – l’altro grande vertice della raccolta; siamo sempre di fronte a una ballata semi acustica, dove però i toni psichedelici si fanno più sostenuti, specie nella parte di tastiere di Wright. “Cymbaline” era infatti già da tempo impiegata dai Pink Floyd nei live, dove la parte di Richard era molto più lunga e corredata da effetti quadrifonici che la rendevano un infinito viaggio lisergico per gli spettatori che assistevano estasiati, forse anche con l’aiuto di qualche additivo poco convenzionale. La parte d’organo in questi solchi è molto abbreviata ma rende perfettamente l’idea della potenza live che la canzone sprigionava. Il Dr. Strange citato nel testo – un personaggio Marvel che appare sulla copertina di “A Saucerful Of Secrets” – ne potrebbe far risalire la datazione allo stesso periodo. La canzone è utilizzata da Barbet Schroeder in modo diegetico, ovvero ricorrendo all’escamotage della protagonista che fa partire il brano mettendo il vinile sul piatto, nella prima scena d’amore tra i protagonisti.

La seconda parte del disco è quasi tutta strumentale, al netto di “Ibiza Bar” di cui si è già detto, e comprende anche la curiosa “A Spanish Piece”, dove Gilmour si improvvisa credibile chitarrista di flamenco ma sbrodola quando aggiunge una sorta di declamazione in un insulso spagnolo maccheronico, che infatti Schroeder elimina in sede di montaggio.

In conclusione “More” è un disco che – probabilmente in modo ingiusto – viene spesso sottovalutato se non dimenticato nella discografia dei Pink Floyd; è invece un passaggio importantissimo per chi volesse ricostruire in modo filologico la storia della band, segnando chiaramente il tramite tra gli esordi psichedelici con Barrett al comando a un suono diverso che, dopo il discusso “Ummagumma”, troverà forse il suo compimento in “Meddle” e il trionfo nella perfezione di “The Dark Side Of The Moon”. (leggi l’articolo)

Per chi invece vuole semplicemente ascoltare delle belle canzoni, in “More” troverà di che soddisfare il proprio palato, con alcune delle più belle ballate dei Pink Floyd.

— Onda Musicale

Tags: Pink Floyd, David Gilmour, Roger Waters, The Dark Side of the Moon, Nick Mason, A Saucerful of Secrets, Ummagumma, Rick Wright, More, Zabriskie Point
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