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“Disraeli Gears”: il disco perfetto dei Cream

Se c’è una cosa che salta all’occhio parlando della storia del rock, è il concetto di tempo che in quegli anni era quasi alterato.

Prendiamo Eric Clapton, a tutt’oggi una vera istituzione del rock dalla carriera ultracinquantennale: eppure quando pensiamo ai grandi capolavori di “Slowhand” non possiamo non pensare agli inizi con gli Yardibirds, al passaggio col maestro John Mayall e alla mitica avventura dei Cream. Ebbene, tutto ciò si consumò nel giro di appena quattro anni; gli stessi Cream, il primo vero supergruppo della storia, ebbe una vita inferiore ai due anni con quattro album registrati almeno parzialmente in studio.

Tra questi, al di là dei gusti di ognuno, quello che più rappresenta la parabola del power trio è il secondo, “Disraeli Gears”, uscito nel novembre del 1967 per la Reaction Records, ottenendo lusinghieri risultati di vendita sia in patria che negli Stati Uniti, dove fu addirittura il disco più venduto del 1968

I Cream, è forse superfluo ricordarlo, si erano formati nel giugno del 1966 con l’unione di Eric Clapton alla chitarra e alla voce, Jack Bruce al basso, all’armonica e alla voce e Peter “Ginger” Baker alla batteria e alla voce. Con una buona dose di giovanile presunzione, certo non infondata, i tre si ritenevano i migliori musicisti su piazza nella “swingin’ London”; la “crema”, per l’appunto. Clapton era reduce da un biennio che lo aveva incoronato “Dio” del blues bianco ed era l’idolo dei giovani londinesi, specie dopo l’esperienza col mentore John Mayall; Bruce e Baker si erano fatti le ossa suonando con tutti i principali maestri del blues britannico, da Alexis Korner alla Graham Bond Organisation. Bruce, oltre a essere un virtuoso del basso in chiave jazz rock, era un ottimo cantante e armonicista e se la cavava piuttosto agevolmente come compositore; Baker era un personaggio istrionico, dalla chioma fiammeggiante e un solido background di batterista, in grado di passare senza patemi dal jazz al rock, fino alle amate percussioni etniche.

Quella dei Cream sarà un’avventura breve ma rivoluzionaria per tutto il rock; la formula del power trio chitarra, basso e batteria viene definitivamente sdoganata, così come il concetto di supergruppo

La loro lezione sarà subito appresa da Jimi Hendrix, che fonderà la sua Experience ricalcandola sui loro stilemi, ma anche dall’hard rock nascente dei Led Zeppelin e dei Deep Purple e per superare di slancio la derivatività dal blues dei padri americani. Il primo lavoro, “Fresh Cream”, è ancora immaturo nel rileggere in modo fin troppo canonico i classici del blues e nel presentare pezzi originali non del tutto all’altezza. E se il successivo “Wheels Of Fire” – metà in studio e metà live – risentirà troppo dell’esagerato virtuosismo dal vivo, “Disraeli Gears” è la proverbiale quadratura del cerchio.

Siamo in piena era psichedelica e, fin dall’iconica copertina, i Cream fanno loro gli slanci lisergici del momento, innestandoli sull’ossatura profondamente blues dei loro pezzi

La cover è pura arte psichedelica: una foto dei tre scattata da Robert Whitaker ed elaborata graficamente da Martin Sharp. Il titolo viene fuori da un modello di bicicletta da corsa, al cui riguardo Clapton chiedeva notizie all’appassionato Baker: “Disraeli Gears” è la storpiatura che ne fa il tecnico Mick Turner e che diverte i ragazzi a tal punto che lo scelgono come titolo del disco, a testimonianza della spensieratezza naif del periodo.

Il disco si apre con “Strange Brew”, un pezzo bellissimo che mette subito buona parte delle carte in tavola. Il brano è ascrivibile essenzialmente a Clapton, pur con la collaborazione del produttore Felix Pappalardi, con Eric che canta con un falsetto straniante; il contrasto tra la melodia quasi pop e la struttura blues potrebbe essere stridente, eppure il pezzo funziona a meraviglia. I fraseggi di Eric sono praticamente ricalcati su quelli del maestro Albert King, ma nonostante ciò il blues rimane sullo sfondo; è uno degli ingredienti ma non il solo. Il suono della chitarra è acido e pulito al punto giusto e il lavoro della parte ritmica preciso come un orologio: “Strange Brew” è un pezzo che ha sempre fatto storcere il naso ai puristi, eppure – per chi scrive – è forse la canzone perfetta dei Cream.

E, a proposito di perfezione, subito dopo arriva il pezzo per eccellenza della band, quello che da solo vale tutta la carriera e che contiene uno dei riff di basso e chitarra più celebri della storia del rock: “Sunshine Of Your Love”. Poco si può aggiungere che non sia già stato detto su questo monumento del rock blues; il riff è dovuto a Jack Bruce che, a quanto pare, lo compose ancora impressionato da un concerto di Jimi Hendrix, a cui la canzone è dedicata. La composizione fu completata con l’aiuto di Clapton, che divide con Bruce anche le parti vocali e confeziona un assolo che rimane tra i suoi più iconici, con la bizzarra citazione di “Blue Moon” nelle note iniziali.

Dopo un uno-due di questa portata, il disco potrebbe anche contenere mezz’ora di disturbi e sarebbe comunque un lavoro seminale, ma ovviamente non è così

La prima facciata del vinile di allora contiene “World Of Pain”, “Dance The Night Away” e “Blue Condition”, unico pezzo composto e cantato da Ginger Baker e forse il passaggio più debole del lavoro. Le altre due sono robuste canzoni in cui un rock spruzzato di aromi psichedelici si unisce a passaggi pop d’autore e al solito retroterra blues di Clapton.  Giusto il tempo di tirare un po’ il fiato e la seconda parte del disco torna su livelli di pura eccellenza.

Tales Of Brave Ulysses”, cantata da Bruce ma essenzialmente farina del sacco di Eric Clapton, è forse il passaggio più lirico dell’intero canzoniere dei Cream; l’uso del wah-wah di Eric, allora ancora pionieristico, farà scuola tra tutti i chitarristi rock che verranno dopo. “SWLABR” è invece un pezzo ingiustamente sottovalutato, vero anticipatore dell’hard rock e testimone dell’incredibile bravura di Bruce nel creare riff killer. La chitarra di Clapton ha un suono talmente saturo da sembrare essere trattata con moderni strumenti elettronici; un piccolo gioiello da riscoprire.

La successiva “We’re Going Wrong” è una cavalcata psichedelica ipnotica in crescendo. La prestazione vocale di Bruce è da brivido, con un falsetto da pelle d’oca che si staglia sulle ossessive percussioni di Baker; la chitarra di Clapton si limita a sottolineare il tutto con lente pennate, prima di intervenire nella seconda parte con un suono saturo e limpido. I fraseggi si muovono su scale per una volta diverse da quelle blues a cui “Slowhand” ci ha abituato, prima di un roccioso finale. Quasi un “raga” blues, lisergico e ipnotico.

Rimane solo la chiusura, dove finalmente i Cream tornano tra le accoglienti braccia del blues, anche qui però con un approccio rinnovato

Lo fanno, ovviamente, affidandosi soprattutto alla chitarra di Clapton. “Outside Woman Blues” è un oscuro blues del 1929 di Blind Joe Reynolds e l’arrangiamento dei Cream riesce in un miracolo vero e proprio: rimanere fedele al pezzo originale e stravolgerlo completamente nello stesso tempo. Clapton ricorre per la parte ritmica a un accordo particolare, un “mi” settima maggiore con nona aggiunta, un accordo che sarà usato spesso da Jimi Hendrix ma anche dai primi Deep Purple di “Mandrake Root”, mentre alla fine di ogni strofa aggiunge un “lick” di chitarra ricalcato sulla slide di Blind Joe Reynolds. “Slowhand” si prende anche la parte vocale, dimostrando di aver completamente superato quella sorta di timidezza che gli impediva di dare il meglio come vocalist e di essere ormai anche un provetto cantante.

La successiva “Take It Back” è di nuovo un blues canonico, stavolta cantato da Bruce che spadroneggia anche con l’armonica

Il pezzo non è certo un passaggio memorabile nel repertorio dei Cream, che in questo caso tengono il profilo fin troppo basso, tanto che il brano non decolla come dovrebbe. La chiusura è affidata a “Mother’s Lament”, un brano tradizionale cantato in coro dai tre giovani senza accompagnamento musicale, una specie di divertissement; sembra quasi di vederli, come tre amici il sabato sera, coi vestiti della festa e le facce stravolte, uscire ubriachi dal tipico pub, nella notte londinese e intonare questa sghembo coretto.

Disraeli Gears” – si diceva – è un grande successo e, come spesso capitava in quegli anni frenetici, contiene in sé il germe della fine; mai più i Cream saranno così compatti, quasi in stato di grazia:

Ai tempi di ‘Disraeli Gears’ cominciammo a prendere parecchio LSD. – è Clapton a parlare – Quello però fu il momento di massimo splendore: eravamo molto vicini uno all’altro, ci volevamo un gran bene e passavamo tutto il nostro tempo insieme. Se qualcuno veniva nel nostro camerino prima di un concerto per parlarci gli era impossibile penetrare quel piccolo campo magnetico che si era creato intorno a noi. Avevamo addirittura inventato un linguaggio in codice tutto nostro, che nessuno riusciva a capire. Questo momento di grazia durò abbastanza a lungo, quasi sei mesi. Credo che le cose peggiorarono quando diventammo veramente famosi.”

Ci sarà ancora grande musica nei dischi successivi dei Cream, specie nella parte in studio di “Wheels Of Fire” e sul palco i tre faranno sempre scintille; eppure proprio dal vivo, col senno di poi, si colgono i contrasti all’interno della band

I tre perdono l’equilibrio miracoloso di “Disraeli Gears”, quando paiono tutti uniti verso il solo obiettivo di scrivere e suonare grandi canzoni; sembrano quasi rincorrere virtuosismi sempre più vacui, come suonassero uno contro l’altro per primeggiare, e non uno con l’altro. Tra Clapton e Bruce scatta una lotta all’ultimo decibel per primeggiare, tanto che Baker spesso non riesce nemmeno a sentire le parti di batteria che suona.

Insomma, “Disraeli Gears” rimane la fotografia del momento di grazia, quello in cui nei Cream tutto funziona alla perfezione, prima del veloce declino e del tracollo.

Forse, però, è meglio così.

Chi muore giovane è caro agli Dei, si dice, e forse vale anche per le band.

— Onda Musicale

Tags: Eric Clapton, Cream, Ginger Baker, John Mayall
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