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“This Was”: come il mondo conobbe i Jethro Tull

Nell’ottobre del 1968 il mondo del rock era nel periodo di massimo splendore, un momento di grazia che sarebbe durato ancora per qualche anno e che avrebbe consegnato alla storia una lunga lista di capolavori.

Proprio in quei giorni, tanto per fare un esempio, i Beatles erano al lavoro sul doppio album che sarebbe passato agli annali come “White Album”, mentre i Rolling Stones preparavano il loro “Rock’n’Roll Circus”, i Cream erano ancora in piena attività e stavano per nascere i Led Zeppelin.

Tante erano però anche le meteore, band di belle speranze, magari costituite da grandi talenti, che nascevano e morivano a volte nello spazio di un album e di qualche concerto; proprio il 25 di quel mese, si affacciava timidamente alla ribalta una band semisconosciuta che avrebbe fatto impazzire milioni di fan: i Jethro Tull.

Quel giorno, nei negozi di dischi faceva capolino “This Was”, il loro esordio; la copertina vedeva ritratti i componenti del complesso vestiti in abiti bizzarri e di foggia inusuale. Il nome era ispirato a un agronomo inglese del settecento, secondo alcuni l’inventore dell’aratro. E proprio il loro moniker celava una storia curiosa: la band di Ian Anderson, agli inizi, usava spesso cambiare nome e fu proprio il leader a ricordare le circostanze in cui nacque l’efficace pseudonimo: “Nel febbraio del 1968 ero nell’ufficio dell’agenzia Ellis-Wright per discutere di alcuni concerti da tenere al Marquee di Londra. Un agente, Dave Robson, appena entrato mi disse: ‘Come avete deciso di chiamarvi questa settimana? Jethro Tull?’ Gli risposi: ‘Va bene, meglio dell’ultimo, Ian Henderson’s Navy Blue’. Nacque così uno dei nomi più mitici per i successivi cinquant’anni.”

Ma non sono solo il look e il nome a colpire per la loro eccentricità: il sound dei Jethro Tull è qualcosa di mai sentito prima. In questo primo lavoro, va detto, il suono di Ian Anderson e soci è molto diverso da quello che sarà in seguito; proprio per questo, “This Was” viene considerato un unicum nella loro discografia. Innanzitutto, per l’unica volta nella decennale storia della band, il ruolo di leader maximo del barbuto Ian non è così preponderante, in secondo luogo, gli stilemi dei Jethro Tull sono ancora legati a doppio filo con l’allora imperante british blues. Tutto ciò è dovuto alla presenza del chitarrista Mick Abrahams, robusto strumentista di chiara matrice blues. La chitarra di Mick – che in un paio di pezzi duetta con Anderson anche alla voce – traccia gli schemi delle composizioni almeno quanto il flauto del frontman, riconducendo spesso le trame ad un folk blues non troppo dissimile da Cream, Savoy Brown, Chicken Shack e Groundhogs, grandi band blues del periodo. Mick, poco dopo l’uscita del disco, lascerà il gruppo in aperto disaccordo con le derive folk e progressive care ad Anderson e formerà con buon successo iniziale i Blodwyn Pig. Al suo posto siederà brevemente Tony Iommi e poi Martin Barrè, vera e unica metà musicale della mela per Ian Anderson.

Ma allora, cosa ha di così innovativo la musica del gruppo? Semplice, a fare la differenza è proprio la figura di Ian Anderson, una delle più importanti e peculiari della storia del rock. Cantante e polistrumentista, estroverso fino all’esibizionismo, Ian introduce nel rock il flauto traverso. Diciamolo subito, non è il primo e la sua tecnica si ispira quasi totalmente all’oscuro jazzista americano Roland Kirk; tuttavia, con Andreson il flauto diventa protagonista tanto quanto la chitarra elettrica nel rock blues e le tastiere nel nascente prog. Il suo modo di suonare – specie sul palco – fa scuola: in equilibrio su una gamba come una gru, lo sguardo spiritato e demoniaco, Ian veleggia al confine tra blues, rock, jazz e musica classica con fraseggi ora colti e ricercati, ora quasi violenti col suo sbuffare e barbugliare nello strumento. In breve i Jethro Tull diventano il gruppo da vedere almeno una volta dal vivo, quello per cui la sola prestazione del leader – che si destreggia tra flauto, chitarre, mandolino, armonica e voce – vale il prezzo del biglietto.

La musica di “This Was”, come detto è ancora piuttosto canonica, al netto delle prodezze strumentali. “My Sunday Feelings” apre le danze con un rock blues sostenuto dove il flauto di Anderson rimane ancora un po’ defilato, limitandosi a punteggiare i vari passaggi, mentre il solo di chitarra di Abrahams mette in mostra un musicista pienamente consapevole dei suoi mezzi e calato nella realtà dell’epoca; il finale jazzato dà subito l’idea che però i Jethro Tull siano una spanna più su di tante band coeve.

Some Day The Sun Won’t Shine For You” è ancora una composizione di Anderson dalle forti tinte blues; sembra quasi di sentire John Mayall nella voce di Ian, puntualmente doppiata da quella del chitarrista. Il brano è dominato dall’armonica di Anderson e dalla precisa ritmica di Abrahams, tanto da sembrare quasi un pezzo downhome. Sicuramente uno dei passaggi più blues dei Jethro Tull, un omaggio a un genere amato da Anderson, che però lo ha sempre considerato una delle frecce al suo arco e non l’unica.

Beggar’s Farm” è ancora un robusto rock blues caratterizzato da un bel riff di chitarra e dal lavoro al flauto del leader; nella seconda parte il ritmo si velocizza e si fa più jazzato, col simultaneo lavoro solista di Abrahams e dell’onnipresente flauto di Ian Anderson. “Move On Alone” è l’unica composizione interamente scritta da Mick Abrahams, che per l’occasione si impadronisce anche del microfono principale. Un breve blues rilassato – due minuti scarsi – reso ancora più particolare dai fiati e da blandi arrangiamenti orchestrali. “Serenade To A Cuckoo” è forse il passaggio più celebre dell’esordio dei Jethro Tull; si tratta di una splendida cover del pezzo jazz di Roland Kirk.

Ian Anderson deve tutto a Roland Kirk, lo ha ammesso egli stesso più volte. Kirk era una bizzarra figura di jazzista afroamericano, contemporaneo di Anderson ma misconosciuto; non vedente, usava suonare più strumenti contemporaneamente, dal flauto al sax all’armonica, fino a diavolerie a fiato di sua invenzione. Anderson, coadiuvato da un favoloso e quantomai jazzato assolo di Abrahams – con tanto di passaggi in cui suona le ottave come Wes Montgomery – dà il meglio in quello che è forse il punto più alto del lavoro.

Si prosegue con “Dharma For One”, un sostenuto strumentale con un interminabile assolo di batteria, allora temutissima quanto diffusa usanza, ed è forse il passaggio più debole dell’album. “It’s Breaking Me Up” riporta tutto al blues, con una composizione fortemente guidata dall’ineccepibile chitarra di Abrahams e con Anderson di nuovo all’armonica. Sembra di sentire i Cream o i Ten Years After, ovvero il meglio del rock blues dell’epoca. Sappiamo tutti quali saranno i futuri fasti dei Jethro Tull con Barre alla chitarra, tuttavia un pezzo come questo qualche rimpianto per la formazione a due leader – Anderson/Abrahams – lo alimenta. “Cat’s Squirrel” è l’altra cover del disco, un traditional blues che era già stato inserito dai Cream due anni prima nel debutto “Fresh Cream”. Se la versione di Clapton e soci era un vero manuale di chitarra blues, la resa dei Jethro Tull si spinge ancora più in là: i suoni sono più duri e dilatati, le evoluzioni della chitarra di Mick Abrahams al limite del virtuosismo, quasi a emulare Alvin Lee e i suoi Ten Years After. I continui cambi di ritmo e atmosfere e il lavoro alla batteria di Clive Bunker fanno di “Cat’s Squirrel” una sorta di esperimento di blues progressivo, un genere di nicchia che sarà ripreso da band come Groundhogs e Steamhammer.

C’è ancora spazio per “A Song For Jeffrey”, dedicata al futuro bassista e amico di Ian Anderson Jeffrey Hammond; è forse la canzone più celebre del primo lavoro, oltre allo strumentale “Serenade To A Cuckoo”; la voce di Anderson pare filtrata da una sorta di megafono e ricorda molto certi folli passaggi di Captain Beefheart, e il lavoro al flauto e all’armonica faranno scuola nel genere. Abrahams si misura con grandi risultati con la chitarra slide, un brano davvero mitico. Chiude il breve strumentale “Round”, un accattivante strumentale che mette la parola fine a un lavoro che all’epoca doveva suonare a tratti quasi roba di un altro pianeta.

This Was” rimane insomma un episodio a sé stante nella sterminata discografia della band, e allo stesso tempo un capolavoro per certi versi naif da riscoprire, con il raro pregio di suonare fresco dopo cinquantadue anni dalla registrazione.

— Onda Musicale

Tags: Ian Anderson, Jethro Tull
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