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“Salisbury” degli Uriah Heep, il capolavoro dimenticato dell’hard rock

Salisbury Plain, nel Wiltshire, sud dell’Inghilterra, è una località che ospita una base militare di discreta importanza. Un carrarmato impegnato in un’esercitazione, avvolto da una nube arancione e psichedelica, accompagnato dalla dicitura “Uriah Heep” e “Salisbury” con un font fumettistico, sono gli ingredienti della copertina di uno dei grandi capolavori dell’hard rock inglese, forse ingiustamente poco celebrato.

L’anno è il 1971 e in Inghilterra si parla di triangolo dell’hard rock; i tre vertici sono costituiti dai Led Zeppelin, i Deep Purple e i Black Sabbath. I primi due – la band di Page e Plant soprattutto – sono amatissimi da pubblico e critica, mentre i ragazzi capitanati da Ozzy Osbourne vendono bene ma sono visti come il fumo negli occhi da molti addetti ai lavori. Gli Uriah Heep invece stentano sia nelle classifiche che nel rapporto con la stampa, che rimarrà sempre per lo più disastroso; negli Stati Uniti qualcuno arriverà addirittura a definirli “la band peggiore del pianeta”.

Gli Uriah Heep nascono nel 1969 quando il chitarrista Mick Box, musicista dallo stile viscerale e poco dedito al virtuosismo, e il cantante David Byron si uniscono al tastierista, chitarrista e cantante Ken Hensley. Box e Byron militano insieme dagli inizi, prima negli Stalkers e poi negli Spice; la voce di Byron è particolarissima, duttile e potente, si arrampica in alto con un falsetto quasi operistico che spesso si risolve in urla dissennate che ricordano a tratti l’ugola d’oro di Ian Gillian dei colleghi Deep Purple. Hensley è il prototipo del figlio dei fiori, con lunghissimi capelli, una forte vena poetica e tante idee dietro la tastiera dell’organo; arriva da un gruppo chiamato Gods e mette al servizio della band le sue grandi doti compositive. Il nome Uriah Heep è lo stesso del personaggio del “David Copperfield” di Charles Dickens, il viscido antagonista di David adulto.

Il debutto del complesso avviene nel 1970 col travagliato “Very ‘eavy… Very ‘umble”, disco dalla lunghissima gestazione e dall’incerta cifra artistica, sospesa tra hard rock, reminiscenze psichedeliche e qualche evitabile passaggio pop; tuttavia l’apertura affidata alla sontuosa “Gypsy” fa già presagire le potenzialità del gruppo.

Hensley, che si era inserito in formazione coi pezzi del primo album già scritti, entra in azione appieno proprio con “Salisbury”, un lavoro che è quasi un concept e sicuramente rappresenta il passaggio più vicino al rock progressivo della band. Il disco è costituito da cinque pezzi ambiguamente divisi tra hard – quasi protometal in alcuni casi – passaggi jazzati e pop e la splendida suite di sedici minuti che dà il titolo alla raccolta.

L’apertura è affidata a “Bird Of Prey”, uno degli inni degli Uriah Heep. L’intro chiarisce subito che siamo in pieno ambito metal, con una partenza al fulmicotone grazie a un riff granitico e velocissimo e alle sovraincisioni vocali di Byron, che paiono prese di peso da un contesto operistico; la chitarra cupa e martellante di Box conduce le danze, opportunamente sostenuta dall’organo di Hensley, avventurandosi in una cavalcata quasi epic metal che solo anni dopo costituirà la cifra di band come Iron Maiden, Judas Priest e Rainbow. Un vero colpo da K.O. piazzato a freddo, un brano quasi rivoluzionario per l’epoca, se si considera che risale all’anno prima – era il lato “b” di “Gypsy” – e che si era guadagnato i galloni di cult sul campo, negli infuocati live. Nel finale il pezzo cambia repentinamente, rallentando il ritmo e virando verso un rock più classico prima di sfumare.

The Park” è una ballata dalle atmosfere quasi acid jazz, la cui resa è ancora più straniante perché collocata tra due pezzi che più hard all’epoca non si poteva. “The Park” offre il lato più dolce della band, col falsetto di Byron più carezzevole che mai e Hensley che accompagna rispolverando un clavicembalo dalle sonorità barocche. Un riuscito connubio tra jazz, folk e musica classica che offre il fianco però ai detrattori che hanno sempre visto nella band un’eccessiva ambiguità nello sposare generi così lontani tra loro. “The Park” resta comunque un pezzo piacevolissimo, con belle armonie vocali e una suggestiva cavalcata di chitarra jazz rock nella lunga coda.

Time To Live” riprende le atmosfere di “Bird Of Prey”, col più tipico incedere hard rock e una prestazione sontuosa di Byron alla voce. Mick Box ha finalmente l’occasione di sfoderare il suo amore viscerale per il “wah-wah”, utilizzato in maniera espressiva, molto diversa da quella di tanti guitar hero coetanei.

L’allora lato “a” del vinile si chiude col botto proponendo quello che sarà il sempiterno cavallo di battaglia del complesso: “Lady In Black”. Curiosamente Byron, che non è convinto dal pezzo, forse ritenuto troppo pop, si dissocia e così alla voce troviamo Ken Hensley. La ballata, dal testo marcatamente antimilitarista, è estremamente accattivante e orecchiabile, forse fin troppo per molti, e propone un arrangiamento di stratificate chitarre acustiche e basso pulsante, puntellato dalla chitarra elettrica. Il pezzo è di quelli da cantare tutti assieme nei concerti e questo è il destino che avrà per decenni nei live degli Uriah Heep.

Il lato “b” si apre archiviando velocemente la cavalcata rock di “High Priestess”, dominata da chitarre sovraincise, coretti vocali e un organo dalle sonorità liquide, per lasciare il campo alla ben nota suite che dà il titolo all’intero lavoro.

Fin dall’apertura, con l’orchestra in primo piano condotta da John Fiddy, affidabile autore di library music, si capisce che “Salisbury” è il vertice progressive degli Uriah Heep, ambizioso ma ben riuscito. Nei sedici minuti della suite – prodotta da Gerry Bron, già al lavoro sulla “Valentyne Suite” dei Colosseum – si alternano un serie di atmosfere diverse in modo quasi vertiginoso; c’è spazio per tutto, cambi di ritmo, passaggi tastieristici nel più puro stile prog, riff rock durissimi e la solita prestazione vocale di Byron che sfodera toni carezzevoli alternati a urla potentissime. Box e Hensley si rincorrono su temi ora veloci e ora più calmi, prima che nel finale la chitarra di Mick esploda con tutto il suo furore selvaggio. Siamo lontani dai tecnicismi di un Ritchie Blackmore, ma forse Box è perfino superiore a livello di feeling, con un uso spregiudicato e fuori dai canoni dell’effettistica – il “wah-wah” su tutti – e quasi totalmente slegato dagli stilemi blues allora ancora imperanti. Con una veloce ripresa della parte vocale la suite si conclude e consegna alla storia questo splendido album.

All’epoca il disco vendette bene – curiosamente – solo in Finlandia e in Italia, tanto che in parecchi lavori prog di casa nostra si possono sentire le influenze. La parte vocale di “Salisbury”, per esempio, ricorda da vicino le atmosfere de “Il Nevare” dei nostrani Biglietto Per L’Inferno, e qualche stacco strumentale di “Cemento Armato” de Le Orme pare aver preso più di un’idea tra i solchi degli Uriah Heep.

La band continuerà su alti livelli per una manciata di dischi – “Demons & Wizards” forse il più celebre – ottenendo anche lusinghieri successi di pubblico; poi i gravi problemi di alcol di David Byron e la defezione di Ken Hensley, uniti al tramonto progressivo dell’hard rock, porteranno il complesso a un lento declino creativo, ma anche a lunghi tour come mostri sacri del rock che durano tutt’ora.

— Onda Musicale

Tags: Ian Gillan, Iron Maiden, Led Zeppelin, Black Sabbath, Judas Priest, Uriah Heep, Rainbow, Deep Purple
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