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Crosby, Stills & Nash: anatomia di un supergruppo

La prima volta che si parla di supergruppo nella storia del rock è il 1966 e la definizione viene coniata per i Cream di Eric Clapton, Ginger Baker e Jack Bruce.

Si tratta di tre personaggi che – un po’ presuntuosamente – si definiscono “la crema” del rock inglese; è un supergruppo in senso strettamente tecnico, in quanto il solo Clapton è una vera celebrità, mentre gli altri due sono ritenuti tra i migliori su piazza nei rispettivi campi, ma non sono notissimi al grande pubblico. Nel 1969 David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash danno alla definizione una nuova accezione, quella di tre grandi personalità musicali, già pienamente affermate, che si uniscono. Anche la “ragione sociale” scelta, coi tre nomi disposti nell’ordine in cui suonano foneticamente meglio, chiarisce il pari livello dei musicisti.

Ma torniamo al 1969 per capire come avvenne l’unione di questi tre cristallini talenti. 

Stephen Stills, pur essendo il più giovane dei tre – 24 anni – era già un capitano di lungo corso delle acque agitate del rock; soprannominato “Captain Manyhands”, ovvero “capitano moltemani” per la sua abilità di polistrumentista, ha all’attivo già tre dischi coi Buffalo Springfield, fantastica formazione di country rock in cui militava anche Neil Young. “Buffalo Springfield Again”, il loro secondo lavoro, è considerato all’unanimità un capolavoro; i continui contrasti con Young, una gestione manageriale non proprio all’altezza e i guai con la droga sono le cause che impediscono alla band di ottenere il giusto successo e che portano allo scioglimento. Archiviata l’esperienza, Stills si dedica a proficue collaborazioni, sfornando un altro capolavoro con “Supersession”, lo splendido album in cui Al Kooper si divide in due jam con Michael Bloomfield sulla prima facciata e con Stills sulla seconda; si tratta di un’altra pietra miliare del rock. Stephen è inoltre rinomato per le sue grandi capacità in studio di registrazione dove è un vero pioniere delle tecniche più all’avanguardia.

Nell’ambiente hippie della west coast, Stills frequenta uno dei personaggi più folkloristici, ma allo stesso tempo influenti, David “Croz” Crosby. David è soprannominato “Croz” – croce – per l’assonanza col cognome ma soprattutto per l’innata capacità di cacciarsi nei guai più assurdi. Figlio di Floyd Crosby, quotato direttore della fotografia di Hollywood, vincitore di Oscar e Golden Globe – quest’ultimo per “Mezzogiorno di Fuoco” – il giovane David abbandona la prospettiva di una giovinezza agiata per abbracciare la vita del figlio dei fiori vagabondo, mantenendosi con la musica; a una splendida voce unisce l’abilità come chitarrista fuori dagli schemi e compositore. Per anni ha militato nei Byrds, prima che le sue continue intemperanze portassero i compagni di band a metterlo alla porta, come fosse una sorta di Syd Barrett americano.

Crosby, con la liquidazione, acquista una goletta, il “Mayan”, e per un po’ gira per i Caraibi alla ricerca di sé stesso. Il suo carattere impulsivo ma bonario e il suo talento lo rendono popolarissimo nel giro del rock psichedelico: è amico dei Grateful Dead e dei Jefferson Airplane, di Janis Joplin e dei Mamas & Papas, ma ha importanti contatti anche tra le alte sfere, in virtù degli agganci di famiglia. Inoltre, Crosby predica e attua l’amore libero, passando da una fiamma all’altra; in quel momento sta con Joni Mitchell, di cui produce il primo disco.

Come sempre accade per i grandi incontri – specie se visti col senno di poi – il destino è in agguato; in una festa a casa di Cass Elliott, Crosby e Stills si mettono a suonare la chitarra e intonano un paio di pezzi. Caso vuole che tra gli invitati ci sia anche Graham Nash, membro degli Hollies, gruppo pop inglese dal solido successo, di cui però inizia a essere stanco. In particolare è il brano “You Don’t Have To Cry” ad attirare l’attenzione di Graham – oltre probabilmente a Joni Mitchell, con cui di lì a poco intreccerà una relazione col benestare del generoso Crosby. Nash chiede di cantarla insieme ai due e le armonie vocali che si creano istintivamente fanno gridare tutti i presenti al miracolo.

Stills e Crosby si guardano complici, capendo di aver trovato un’alchimia potenzialmente formidabile, ma temono che Nash non sia disponibile, visto il legame con gli Hollies; è proprio Cass Elliott a fare da tramite e a capire che in realtà il buon Graham sia proprio alla ricerca di una scusa per liberarsi dai vincoli con la band.  A quel punto è fatta, sull’onda dell’entusiasmo i tre si chiudono in studio di registrazione e, tra mille esperimenti, tirano fuori uno dei più grandi capolavori del rock, il disco che porta semplicemente i loro cognomi e che li vede stravaccati su un vecchio divano sotto un patio, fissare l’obiettivo con la sfrontatezza della gioventù. Gli unici altri musicisti che partecipano alle session sono il batterista Dallas Taylor, con cui Stills ha un rapporto musicale quasi telepatico, e Cass Elliott ai cori in un brano. Jim Gordon, il primo batterista, viene scartato e il suo contributo rimane solo in “Marrakech Express”.

Il disco, equamente diviso tra atmosfere acustiche e furore elettrico, si apre con uno dei cavalli di battaglia della formazione: “Suite: Judy Blue Eyes”. Siamo di fronte a una vera e propria suite in tre movimenti composta da Stills; il brano è dedicato a Judy Collins, folksinger di cui Stephen è innamorato, non si è mai ben capito quanto ricambiato. La struttura è quella di un baldanzoso folk country, imperniato sul muro di chitarre acustiche, con la batteria sullo sfondo e i ricami elettrici di Stills. Sono però le armonie vocali a fare la differenza, un impasto di voci irripetibile, avvicinato forse solo dalle pagine migliori dei Beatles e dai coevi Simon & Garfunkel. Il finale sembra quasi indulgere dalle parti di certa musica cubana e latina, altre grandi passioni di Stephen Stills.

Marrakech Express” è un veloce e delicato bozzetto pop che porta la firma di Graham Nash, con un ritornello che sfodera le armonie vocali tanto celebrate e che farebbe ancora oggi l’invidia di qualsiasi indie rock band. Dopo aver messo in campo i talenti di Stills e Nash, è il momento di Crosby con “Guinnevere”; il brano, molto vicino a certe delicatezze di Simon & Garfunkel, è una sorta di ballata medievale guidata dai particolari accordi di David Crosby. Il testo è dedicato alla donna in tutte le sue accezioni e diviso in tre parti, una dedicata a Joni Mitchell – ex musa di Crosby, passata poi a Nash – un’altra a Christine Hinton, l’attuale compagna e la terza a una figura mai chiarita. “Guinnevere” è sicuramente il passaggio più suggestivo del disco e tra i più evocativi della storia del rock americano. Un capolavoro.

La chiusura lascia spazio al bel folk di “You Don’t Have To Cry”, brano che oltre che per la sua bellezza, passa alla storia per aver dato inizio al sodalizio. “Pre Road Downs” è di nuovo a firma Nash e, pur con un notevole tenore elettrico, è di nuovo un pezzo dalla melodia quasi pop e che ricorda un po’ certi passaggi dei Beatles; Nash è ovviamente l’anima più british del progetto, quasi a bilanciare le asprezze americane degli altri due.

Wooden Ships” è un brano scritto essenzialmente da Crosby, con la collaborazione di Stills, mentre erano a bordo del “Mayan” e ceduto inizialmente agli amici Jefferson Aiplane e che predica la fuga dalla società dei consumi. Musicalmente è dominato dalla chitarra mai così psichedelica di Stills, perfetta nel cambiare ritmo in modo deciso e quasi liquida nei passaggi solisti, grazie anche alle infinite sovraincisioni in cui Stephen era maestro. Un altro pezzo destinato agli annali del rock.

Lady Of The Island” è di nuovo un passaggio di Graham Nash; è sicuramente il momento più delicato e raccolto del lavoro, una ballata totalmente acustica che rimanda ai brani più dolci dei Beatles, con atmosfere debitrici a Paul McCartney e un intermezzo all’insegna di armonie vocali ispiratissime. Si rimane nel mood bucolico e acustico con la successiva “Helplessy Hoping”, altra ballata acustica firmata da Stills ma marcatamente country nella melodia e nelle splendide armonie vocali che la animano dall’inizio alla fine: basta chiudere gli occhi e – se vi piace – sentirete il vento tra i capelli e vi ritroverete a Laurel Canyon, tra capelloni e pullmini Volkswagen.

Se siete più prosaici, basterà aspettare poco e la rabbiosa “Long Time Gone” di David Crosby vi riporterà subito verso lidi più rock. Il pezzo – per chi scrive la miglior prova in assoluto dei CSN – fu scritto da David sull’onda dell’emotività in seguito agli omicidi di Robert Kennedy e Martin Luther King. Una testimonianza storica resa incisiva dalle chitarre elettriche di Stills e Crosby, mai cosi dure e acide, dal bordone quasi ossessionante d’organo, ma soprattutto da una prestazione vocale del baffuto David, particolarmente sentita e appassionata. Per trovare la giusta cifra alla voce furono necessari infiniti tentativi, ma il risultato ci consegna una prestazione sontuosa, un brano talmente iconico che da solo vale l’intero repertorio di tante band più blasonate.

Dopo un passaggio così emozionante, la chiusura abbassa un po’ i toni con un brano che pare fatto apposta per mettere in mostra le capacità tecniche da fuoriclasse di Stills, “49 Bye-Byes”. Il pezzo è frutto dell’unione di due pezzi del chitarrista texano, “49 Reasons” e “Bye Bye Baby” e, pur non aggiungendo niente di particolare a un disco capolavoro, ne fa da degnissima conclusione.

Il disco, uscito alla fine di maggio del 1969, trasforma subito i tre in stelle di prima grandezza o, almeno, più di quanto già non lo fossero. Il problema che si presenta subito è dovuto al grande lavoro in sala d’incisione di Stills, che si rivela croce e delizia per la band: è infatti impossibile ricreare dal vivo le tante sovraincisioni di “capitan moltemani”. La questione si risolverà con l’arrivo di Neil Young, che aggiungerà la “Y” alla ragione sociale, la sua chitarra ancora più acida di quella dell’amico-nemico Stills, ma non solo.

L’innesto di Neil produrrà scintille che porteranno a due grandi capolavori, “Dejà Vu” di cui vi abbiamo parlato (leggi l’articolo a questo link) e il live “4 Way Street”, ma anche a insanabili dissidi interni, alimentati anche dalla morte di Christine Hinton che farà precipitare David Crosby in un vortice di droga, depressione e autodistruzione.

Sarà così la fine per il più grande supergruppo, ma questa è un’altra storia che vi racconteremo.

  Andrea La Rovere – Onda Musicale

— Onda Musicale

Tags: Buffalo Springfield
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