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“Ten Years After”, un album d’esordio da riscoprire

Alvin Lee era un tipo precoce: aveva appena dodici anni quando Elvis Presley, dall’altra parte dell’oceano, si prendeva lo scettro di Re del rock’n’roll, e ne aveva sedici quando formò la sua prima band, The Atomites, nella nativa Nottingham.

Alvin era nato nella città del perfido sceriffo di “Robin Hood” il 19 dicembre del 1944, e da subito aveva amato il suono selvaggio del rock di Elvis, ma anche i toni ombrosi e cupi dei grandi bluesman; quando Ivan Jay, un cantante di piccolo cabotaggio, si aggiunse alla band il nome diventò – fantasiosamente – Ivan Jay and the Jayman e il territorio di caccia si spostò a Londra. Ivan Jay non aveva la stoffa giusta e, quando Alvin Lee si impossessò anche del microfono da cantante, oltre che della chitarra, il nome cambiò ancora: prima Jaycats e poi Jaybirds. Come i Beatles qualche anno prima, il diciottenne Lee e la sua band provarono la fortuna ad Amburgo, dove suonarono per cinque settimane.

Ma bisogna aspettare il 1966 per i primi successi; i nostri sono ancora a Londra e la formazione si è stabilizzata con Alvin alla chitarra e alla voce, Leo Lyons al basso, Chic Churchill all’organo e alle tastiere e Ric Lee – nessuna parentela con Alvin – alla batteria.

Il suono si è fatto maturo: la chitarra pirotecnica di Alvin duella con le cavalcate d’organo di Churchill; la sezione ritmica pompa come uno stantuffo, concedendosi sovente svisate ai limiti del jazz. Il nome è cambiato ancora, ma stavolta è quella buona; Ten Years After, forse in omaggio ai dieci anni dai successi di Elvis Presley, ma la storia non è certa.
I quattro si fanno notare, diventano il gruppo fisso del mitico Marquee e vengono messi sotto contratto dalla Deram, futura Chrysalis, pur non avendo pronto ancora nessun materiale. In questo modo, all’avventura e con un po’ d’incoscienza, la band si presenta al prestigioso Windsor Jazz Festival, ottenendo grandi consensi.

“In breve tempo – dichiarò Alvin – diventammo una delle migliori band della seconda ondata del blues inglese. Certo, eravamo molto più rock di formazioni come Fleetwood Mac e Chicken Shack, ma all’inizio il pubblico ci legò a loro. Nessuno riusciva a descrivere alla perfezione il nostro genere, forse nemmeno noi, ma ci piaceva. Avevamo una maledetta voglia di dimostrare al mondo quanto fossimo bravi. Non solo: che i Ten Years After erano bravi e diversi.”
I tempi sono allora maturi per il primo album.

Il disco viene registrato agli studi Decca di Londra nel settembre del 1967 e pubblicato il 27 ottobre. Se – come molti – conoscete gli scatenati Ten Years After di “I’m Goin’ Home”, con la spettacolare chitarra di Alvin Lee che suona chilometrici assoli sul tappeto infuocato del boogie, avrete qualche sorpresa. Il sound dei primi Ten Years After è molto più raffinato, una sapiente mistura di rock, blues, passaggi jazzati e atmosfere psichedeliche; e proprio la copertina del disco traccia già le coordinate: i ragazzi sono vestiti e acconciati perfettamente in stile psych, tra Jimi Hendrix e Cream, e l’immagine è distorta, creando un effetto lisergico che suggerisce il consumo di qualche misterioso acido; la scritta “Ten Years After” ricalca il tipico stile grafico dei manifesti psichedelici della west coast americana.

Basta schiacciare il tasto “play” e l’iniziale “I Want to Know” è già un ottimo paradigma del suono del complesso in quel periodo. Poco più di due minuti di tipico Chicago Blues, con qualche venatura jazz; il pezzo è scritto dietro lo pseudonimo “Sheila McLeod” da John Paul Jones, futuro membro dei Led Zeppelin. La ritmica è decisa e Churchill puntella il tutto sia col piano che con l’organo, ma il vero protagonista è Alvin Lee, fin da subito, con una voce da bluesman albionico e la chitarra che – ben lontana dai virtuosismi un po’ sterili che lo caratterizzeranno da un certo punto in poi – riempie ogni spazio vuoto con un bel suono squillante e lick che ricordano il Clapton del periodo con John Mayall. (leggi la nostra intervista)

Il secondo brano è già uno degli apici del disco e dell’intera produzione del gruppo: “I Can’t Keep From Crying” di Al Kooper. Siamo davanti a uno dei pochi casi di cover indubbiamente superiore all’originale: atmosfere rilassate e inclini al jazz, la voce sofferta di Alvin – cantante sottovalutato ma di valore – e soprattutto la sua chitarra. Il primo assolo è raffinatissimo, misurato, e mischia con miracoloso equilibrio ingredienti jazz e psichedelici; pare quasi di sentire dei Quicksilver Messenger Service, ma molto più puliti e tecnici. Dopo quasi quattro minuti i toni si alzano e il sound della sei corde si irrobustisce, quasi come nei celebri “rave up” degli Yardbirds, ma è un attimo; si rientra nelle atmosfere rilassate iniziali e la canzone si chiude come era iniziata. Un vero e proprio capolavoro.

La successiva “Adventures of a Young Organ”, al di là della malizia del titolo, è un breve strumentale che ci cala perfettamente nelle tipiche atmosfere del periodo. L’organo la fa da padrona, a testimonianza di un’impostazione del gruppo ancora molto democratica, duellando con la chitarra liquida e già velocissima di Lee, per un risultato che ricorda quasi i primi Jethro Tull, con l’organo al posto del flauto di Ian Anderson. Anche se il riferimento più evidente sembrano essere le colonne sonore tra jazz e beat del periodo, citiamo il nostro grandissimo e sottovalutato Piero Umilani.

Con “Spoonful” si torna alle atmosfere torride del blues e a una cover che, in quel periodo, non poteva mancare nel repertorio di nessuna band, tratta dal canzoniere sterminato di Willie Dixon. L’arrangiamento è secco e asciutto, la voce quasi un rantolo roco e la chitarra è una delle più ispirate del british blues. Alvin Lee non ha forse la fantasia di Hendrix, la classe di Clapton o la suggestione di Peter Green, ma la sua velocità, il virtuosismo e la capacità di entrare e uscire dalle pentatoniche con uno stile riconoscibile, ne fanno comunque uno dei musicisti migliori del genere. Va inoltre considerato che questo tipo di blues, quasi hard, all’epoca non era certo il cliché abusato che è oggi: a parte i Cream, un blues duro e psichedelico come quello dei Ten Years After non si era ancora sentito.

Anche i Led Zeppelin, che verranno fuori solo un anno e mezzo dopo, devono avere preso più di un’idea dall’approccio granitico di Lee e soci alla musica del diavolo.

Con “Losing The Dogs” si cambia ancora atmosfera; il pezzo è sospeso tra rock’n’roll e country, con un fischio sbarazzino che alleggerisce e introduce la melodia. Alvin Lee si diverte a citare nel canto e nel suono sfilacciato della chitarra il nume tutelare Chuck Berry di “Johnny B. Goode”, per un risultato che ricorda non poco i coevi Rolling Stones.

“Feel It For Me” torna decisamente al blues, con un brano originale che ricorda nella parte ritmica “Help Me” di Sonny Boy Williamson e “Green Onions” di Booker T and the MG’S. La voce di Alvin Lee è particolarmente scura, mentre il solo di chitarra risulta tra i più ispirati dell’album, nonostante – o forse grazie – alla brevità; il suono della Gibson di Lee è lancinante e pienamente fedele agli idoli Buddy Guy e Otis Rush, per una resa filologicamente perfetta. La successiva “Love Until i Die” vanta un pesante debito con l’arrangiamento di “Crossroads” di Clapton, periodo Cream: il riff è praticamente preso di peso. La partenza vede solo chitarra e basso, con gli altri strumenti che si aggiungono man mano, compresa una bella parte di armonica. Il brano è molto breve ma gode di una certa compattezza.

“Don’t Want No Woman” è un altro passaggio tra i più azzeccati dell’intero lavoro, un blues per chitarra acustica e contrabbasso che cita palesemente il grande maestro del genere Big Bill Broonzy e anticipa lo stile unplugged del Clapton anni ’90. Alvin Lee si dimostra perfettamente a suo agio anche con la chitarra acustica, uno strumento che forse metterà da parte troppo presto nella sua carriera.

Il disco si avvia alla conclusione col pezzo forte della raccolta, una “Help Me” che sfiora i dieci minuti. Il brano è un vero e proprio standard del blues, e la versione dei Ten Years After è ai limiti di una sorta di blues progressivo, con passaggi che anticipano l’hard rock. Il canto di Alvin Lee alterna i bassi caldi di Elvis alle urla dissennate in falsetto che faranno la fortuna di artisti come Robert Plant e Ian Gillan. Inutile dire come la vera protagonista del brano sia la chitarra di Alvin, da cui lo strumentista di Nottingham riesce a tirare fuori qualsiasi tipo di suono, senza annoiare. Una vera cavalcata hard blues che chiude degnamente un album che è un vero gioiellino, a giudizio di chi scrive il migliore della discografia della band.

Nel giro di pochi, vorticosi, anni, il successo arriderà in maniera forse esagerata – e dannosa – alla band, specie dopo la celebre esibizione di Woodstock, dove Alvin Lee si guadagna sul campo il titolo di “chitarrista più veloce del west”, grazie all’indiavolata esecuzione di “I’m Goin’ Home”. Per accontentare le platee da stadio degli Stati Uniti, dove sono diventati delle star, i quattro ragazzi vireranno verso un hard rock sempre più di grana grossa, perdendo progressivamente smalto e ispirazione: “Con uno stile del genere fu normale che la nostra musica fosse più apprezzata in America – ricordava Alvin Lee – che non in Europa. All’inizio tutto ciò ci colpì, poi imparammo a guardare agli States come alla nostra seconda casa. Un feeling che ci ha fatto entrare nel Guinness dei primati: i Ten Years After sono infatti la band inglese ad avere fatto più tournée in America. Quante? Oltre trenta!”

Ma non sono solo rose e fiori; più che al feeling e al sound, la band si ritrova a dover assecondare sempre più spesso la fama di chitarrista velocissimo di Alvin Lee, tanto che nel 1973 il musicista dichiarava: “I Ten Years After sono ormai una specie di juke box ambulante.

Il giocattolo si è rotto: tra scioglimenti, carriere soliste e scialbe reunion, il successo non sarà più lo stesso, e così l’ispirazione, fino al 2013 e alla morte di Alvin Lee. Il chitarrista, 68enne e ancora in piena attività, scompare tragicamente per le complicazioni dovute a un intervento chirurgico.

— Onda Musicale

Tags: Ian Gillan, The Rolling Stones, Led Zeppelin, Jimi Hendrix, Robert Plant, Cream, Fleetwood Mac, Alvin Lee, Ten Years After
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