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Un disco per il week end: “Songs from the Wood” dei Jethro Tull (1977)

Siamo in Inghilterra nel 1977 ed i Jethro Tull, capitanati dal grande Ian Anderson, devono trovare un seguito al concept dell’anno precedente, Too Old to Rock ‘n’ Roll: Too Young to Die!, optando per una svolta che evidenziasse il lato più folk della band piuttosto che prog.

Anderson si era appena sposato dopo la pubblicazione di Too Old to Rock ‘n’ Roll: Too Young to Die!ed aveva comprato casa in Inghilterra. Questo periodo gli aveva dato dunque il tempo di capire la differenza tra vivere in terra albionica e nella sua natia Scozia.

Il risultato di questa riflessione è un album più folk, come accennato prima, che prende spunto dai miti e dal folklore britannico introducendo anche dei temi di sensibilizzazione ambientale per una trilogia completata da Heavy Horses (1978) e Stormwatch (1979).

Ovviamente la critica, velata o meno, alla società moderna c’è sempre e comunque, il celebre Aqualung è un ottimo esempio. L’album che ne viene fuori è Songs from the Wood(1977), ma diamo un’occhiata più dettagliata.

Songs from the Wood: è con questa title track corale che si aprono le danze. Ad accompagnare la voce tutto un insieme di strumenti folkloristici sorretti abilmente dalla batteria di Barlow, dalla chitarra di Barre e dagli intrecci tastieristici di Evan e Palmer.

Ovviamente non manca il flauto di Anderson con la sua geniale inventiva che trascina il pezzo con stacchi e giri di mandolino.

Il testo poi è perfettamente in linea con l’idea di base dell’album, un invito a ritornare alla natura invece che distruggerla.

Jack in the Green: qui Anderson suona tutti gli strumenti in un pezzo che descrive un vecchio rito inglese, risalente al periodo tra XVI e XVII secolo, in cui il popolo faceva delle ghirlande di fiori per celebrare il mese di maggio.

Anderson sottolinea come la modernità sta danneggiando seriamente la natura, ma per fortuna non tutto è perduto.

Cup of Wonder: stacchi, cori e controtempi caratterizzano questo brano in cui si torna ancora più indietro nel tempo.

Più precisamente al tempo dei celti e dei miti pre – cristiani in cui si venerava la natura, madre di tutte le meraviglie presenti nel mondo.

Hunting Girl: l’intro è più prog con i tasti d’avorio di Evan e Palmer a cui si uniscono la chitarra effettata di Barre e la cavalcata di basso di Glascock.

Questa volta il brano è più satirico e tratta di una nobildonna che seduce un contadino per soddisfare i suoi istinti.

Ring Out, Solstice Bells: una danza tipica dei druidi, che vengono citati direttamente, per celebrare il solstizio d’inverno, un periodo molto importante per le popolazioni celtiche e germaniche.

Questo, ovviamente, prima dell’avvento del Natale chiamato così e diffuso dai cristiani. Alzate il volume per la ripresa scatenata del secondo minuto!

Molto curiosa la parte corale finale in cui la voce di Anderson riecheggia e si sdoppia mentre le campane suonano a festa.

Velvet Green: atmosfere medievali per la storia di un giovane uomo che chiede alla sua amata di camminare con lui, mano nella mano, per i verdi prati sotto ai cieli sconfinati grattati dagli alti pini. Un testo davvero bucolico, locus amoenus diceva qualcuno.

Momento corale verso la metà e poi si ritorna all’elettricità intervallata da musiche che sembrano uscite direttamente dalla corte di antichi sovrani ormai dimenticati.

The Whistler: altra canzone d’amore che descrive la spensieratezza della vita, una tematica che sembra ormai fantascientifica visti gli affanni quotidiani dell’uomo moderno.

Qui Anderson accantona momentaneamente il suo amato flauto per il tin whistle, un flauto a fischietto tipico della musica popolare inglese ed irlandese, e la chitarra acustica a dodici corde.

Pibroch (Cap in Hand): tra le tracce più lunghe dell’album, otto minuti e mezzo, si apre con lo stupendo riff echeggiato di Barre per una canzone già più triste rispetto alle altre.

Basti pensare che il titolo vuol dire funereo in gaelico ed il testo non è da meno. Un uomo viaggia a lungo nei boschi per dichiararsi ad una donna, ma quando arriva lei non è più sola.

Godetevi le lunghe parti strumentali a dimostrare la poliedricità e la preparazione dei Jethro Tull che riprendono le tracce precedenti fino al pirotecnico finale.

Fire at Midnight: il tappeto sonoro è più acustico e rilassato perché descrive il ritorno a casa di un uomo dalla sua amata dopo una dura giornata di lavoro. Un pezzo che fila via piacevolmente.

Beltane: aggiunta nell’edizione rimasterizzata del 2003 la canzone riprende dei temi cari ai celti con l’antico festival di Beltane.

Di matrice più progressive folk rispetto alle altre è la degna conclusione di questo album dove la voce di Anderson si fa più sinuosa e, a tratti, arrabbiata.

Un pezzo energico ed esplosivo che farà saltare in piedi l’ascoltatore! Altra grande prova di abilità per il bassista John Glascock

Giudizio sintetico: un album diverso dagli altri e consigliato per gli amanti di queste vecchie atmosfere folk, piacerà anche a chi non è un fan della band!

Va inoltre ricordato che l’album è molto importante perché le sue tracce sono ancora oggi dei veri e propri classici del funambolico flautista che ha suonato anche nel suo concerto ad Arco (leggi qui la recensione del concerto).

Copertina: Ian Anderson fissa l’ascoltatore, con aria quasi sbalordita, mentre è chino su un falò nel mezzo della boscaglia.

Etichetta: Chrysalis

Line Up: Ian Anderson (voce, flauto, chitarra, tin whistle e mandolin), Martin Barre (chitarra elettrica e liuto), John Glascock (basso e voce), Barriemore Barlow (batteria, percussioni e campane), John Evan (pianoforte, organo e tastiere) e David Palmer (organo e tastiere)

— Onda Musicale

Tags: Ian Anderson, Jethro Tull, Aqualung
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