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“A Momentary Lapse of Reason”: l’inaspettato ritorno dei Pink Floyd

C’è grande attesa, il 7 settembre del 1987, quando “A Momentary Lapse of Reason” viene rilasciato nel Regno Unito.

Si tratta ufficialmente del tredicesimo album in studio per la leggendaria band inglese dei Pink Floyd, ma è un lavoro che arriva dopo infinite polemiche e finirà per trascinarsene dietro altrettante, ancora oggi. Ma facciamo il punto della situazione. 

Dopo i fasti degli anni settanta, con gli album più iconici e il successo senza precedenti di “Dark Side of the Moon”, le prime crepe avevano iniziato a manifestarsi coi successivi album; gli equilibri interni del complesso erano pian piano saltati, sbilanciando l’asse totalmente dalla parte di Roger Waters, sempre più gran burattinaio.

La superiorità compositiva di Roger si era manifestata fin dai tempi dell’esperimento “democratico” di Ummagumma, ed era andata via via crescendo. Con The Wall si era consumato il divorzio con Richard Wright, tastierista e vera anima musicale dei Pink Floyd; l’ambiente ne aveva risentito terribilmente, a livello compositivo ma soprattutto umano. La presenza quieta di Richard e del suo enorme talento emerse in tutta la sua importanza – paradossalmente – solo quando venne a mancare.

The Final Cut, nel 1983, consuma definitivamente quel poco che era rimasto della coesione interna: i Pink Floyd, ridotti ormai a tre, sono un mero gruppo d’accompagnamento in quello che gran parte di critica e fan ritengono un album solista di Waters. Celebre la dicitura nei crediti dell’album: “by Roger Waters, performed by Pink Floyd“, a rimarcare la prevalenza di Waters.

Inevitabilmente, all’indomani dell’album – peraltro non troppo riuscito – si consuma la diaspora. Roger Waters se ne va, dando per scontato che il suo abbandono ponga la pietra tombale sulla storia dei Pink Floyd; colui che si era sempre ritenuto la machiavellica mente creativa del gruppo, commette un errore di ingenuità per cui probabilmente ancora oggi non si dà pace. David Gilmour e Nick Mason, infatti, interpretano il suo abbandono come una semplice defezione, e annunciano che i Pink Floyd continueranno a esistere.

Segue una lunga e ingloriosa battaglia legale che i due vincono.

Siamo così al 7 settembre del 1987 e all’uscita del nuovo lavoro. Anche questa volta, però, critica e fan emettono subito il verdetto: A Momentary Lapse of Reasonviene immediatamente etichettato come un lavoro prettamente ascrivibile a David Gilmour. Nick Mason, del resto, non è mai stato un compositore degno di nota e Richard Wright torna sì in campo, ma ancora come turnista di lusso.

L’intento di Gilmour è chiaro fin dalla copertina, che viene di nuovo affidata a Storm Thorgenson, dello studio Hipgnosis, come ai tempi d’oro e come non accadeva da “Animals” di dieci anni prima. Da un input di David, che immagina un letto vuoto, si giunge alla versione ideata da Storm, densa di simbolismi che rimangono piuttosto oscuri: una distesa di letti d’acciaio, ordinatamente posizionati su una spiaggia piuttosto desolata.

Quello che si vede è tutto reale, la computer grafica era di là da venire. Ben 700 letti, con tanto di biancheria, vennero posizionati a Saunton Sands, spiaggia del Devon settentrionale, pronti per il set fotografico; le inclementi condizioni atmosferiche resero le cose ancora più difficili e il costo dell’operazione fu alla fine di ben 50mila sterline dell’epoca. Il risultato è tuttavia estremamente suggestivo, all’altezza delle storiche copertine precedenti. Si può dire altrettanto del disco a livello musicale? Andiamo ad ascoltarlo insieme.

Bisogna innanzitutto dire che David Gilmour, mai troppo a suo agio con la stesura dei testi, si circondò di una serie di autori, tra cui Anthony Moore e Patrick Leonard. Anche a livello musicale, lo stuolo di turnisti e la mole di strumenti impiegati fu maestosa. Gli anni ’80 erano ormai oltre la metà e il suono del decennio ben definito; un suono, va detto, patinato ed elettronico che distava anni luce da quello del periodo d’oro dei Pink Floyd. Gilmour, coadiuvato alla produzione da Bob Ezrin, decise di rimanere un po’ a metà strada tra il sound storico e le tentazioni più contemporanee, e forse questo è il “peccato originale” del disco, che finisce per suonare un po’ troppo prudente nel voler accontentare tutti senza far danni.

Si parte con “Signs Of Life”, primo brano interamente strumentale dai tempi di “Dark Side”. Introdotto da effetti ambientali, si regge su un bordone di sintetizzatori e ospita un breve “spoken” di Nick Mason e gli svolazzi chitarristici di David Gilmour. La volontà di riproporre certe suggestioni di brani come “Any Colour You Like” e atmosfere affini al primo periodo della band è evidente, e il risultato può dirsi in parte raggiunto.

Il brano sfuma nella successiva “Learning To Fly”, primo singolo dell’album e uno dei brani più celebri del “nuovo corso” dovuto a Gilmour. Le liriche si ispirano all’amore di David per il volo, all’epoca il musicista stava prendendo il brevetto di pilota, ma sono anche una metafora non troppo nascosta sul reinventarsi, cosa che per l’appunto la band stava cercando di fare. Musicalmente il brano brilla per una bella melodia che insegue – su un arrangiamento sicuramente troppo patinato – le atmosfere del periodo di “Dark Side”. Il ritornello coi cori ricorda molto lontanamente la cristallina “Brain Damage”, ma gli arrangiamenti strizzano forse un po’ troppo l’occhio a classifiche e pubblico anni ’80.

Pare che Ezrin, cercando di svecchiare il suono floydiano, propose a Gilmour di lasciare da parte l’assolo di chitarra a favore di un inserto rap; la risposta del musicista fu fortunatamente lapidaria: Mio Dio, sarebbe una cosa terribile.

Segue “Dogs Of War”, brano antimilitarista con un cambio di ritmo da 12/8 a 4/4 che – almeno nelle intenzioni – avrebbe dovuto ricordare quello di “Money”. Il risultato, con la prima parte che si regge sulla ritmica ossessionante dei sintetizzatori e sul canto rabbioso di Gilmour, è bizzarro. Il cambio di tempo, con l’entrata della batteria – suonata qui da Carmine Appice – e l’assolo di chitarra marcatamente blues, migliorano la situazione; rimane tuttavia la sensazione di un brano che vuole impressionare ma che risulta solo una sorta di bizzarria.

Segue “One Slip”: da una strofa di questo brano prende il titolo l’intero lavoro. Scritto da Gilmour e Phil Manzanera (leggi la nostra intervista del 2017), offre la band in versione 2/3: riappare Wright alle tastiere ma dietro le pelli siede Jim Keltner, ottimo batterista session man. C’è poco da dire, per chi scrive “One Slip” è forse il peggior brano di sempre dei Pink Floyd, una ballatona dai suoni terribilmente eighties che sarebbe stata bene in un album dei Level 42. Un vero passo falso.

La situazione si risolleva con la successiva “On The Turning Away”, una bella ballata melodica con Gilmour, Wright e Mason finalmente schierati assieme. Dopo una prima parte con la limpida voce di David che si staglia su un tappeto di tastiere minimale, gli strumenti entrano uno alla volta in un crescendo fin troppo melodico, che però non fa rimpiangere troppo i bei tempi; è soprattutto l’ingresso della chitarra elettrica a dare una svolta al brano, preludendo a quella che è probabilmente la miglior parte di chitarra dell’album, quella più genuinamente gilmouriana.

I successivi brani, da “Yet Another Movie” fino a “A New Machine (Part II)”, passando per “Round and Around”, “A New Machine (Part I)” e “Terminal Frost”, costituiscono una sorta di mini suite abbastanza trascurabile; le parti in cui David si lascia sedurre dalle nuove tecnologie, col sintetizzatore che doppia la sua voce, si alternano a uno strumentale lento e piuttosto scialbo. In pezzi come questo si avverte una vera e propria mancanza di direzione.

Chiude il disco la lunga “Sorrow”, composta e suonata quasi per intero da David Gilmour. L’atmosfera cupa, il testo saturo di dolore e la chitarra mai così rabbiosa nel resto del lavoro, salvano un brano però pesantemente penalizzato dall’uso troppo disinvolto dell’elettronica, con una drum machine dal suono smaccatamente anni ’80.

Il disco si conclude lasciando l’ascoltatore con un mix di sensazioni contrastanti; se da una parte il cambio di direzione dagli ultimi lavori improntati esclusivamente al regime di Waters è chiaro e forse salutare, dall’altra l’album è povero di contenuto se raffrontato ai grandi capolavori del passato. I Pink Floyd degli inizi, quelli che contrapponevano una maestosa suite a pezzi più leggeri, o quelli dei mastodontici concept album, sono scomparsi. “A Momentary Lapse of Reason” è sostanzialmente un buon album pop rock, raffinato, ben scritto e suonato ancora meglio, ma che manca totalmente della scintilla del genio dei Pink Floyd. Secondo Nick Mason la band era uno di quei casi in cui la somma degli elementi dà un risultato superiore al mero numero algebrico, e la veridicità di tale affermazione si evince chiaramente sia dai lavori targati Waters che da quelli trainati da Gilmour.

“A Momentary Lapse of Reason” poteva essere un bel punto di ripartenza, questo sì; purtroppo sappiamo tutti che è stato così solo parzialmente, principalmente negli stupendi concerti e tour che il gruppo ha continuato a riproporre per anni.

— Onda Musicale

Tags: Pink Floyd, David Gilmour, Roger Waters, Richard Wright, Hipgnosis, Nick Mason
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