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“Paranoid”, la pietra angolare dell’heavy metal

Il 18 settembre del 1970 – a pochi mesi di distanza dal debutto – nei negozi arrivava “Paranoid”, il secondo album dei Black Sabbath. Sebbene i suoni fossero ancora legati a doppio filo all’hard rock del primo disco, “Paranoid” faceva un ulteriore passo verso la definizione dei canoni metal.

E lo faceva al punto tale da essere considerato da riviste come “Rolling Stone” il miglior album heavy metal di tutti i tempi; eppure – all’epoca – i Black Sabbath non erano certo i pupilli della critica musicale; il primo album aveva avuto grande successo di pubblico ma era stato stroncato da più di una recensione professionale, e lo stesso destino toccò al seguito. Negli anni la critica avrebbe avuto modo di rivedere le proprie posizioni, vista anche la portata storica assunta in seguito dalle invenzioni sonore, ma anche d’immagine, di Ozzy Osbourne e soci.

In “Paranoid”, come si diceva, prosegue l’allontanamento dalle radici hard blues del quartetto di Birmingham – sempre più patria del nascente metal – partito qualche anno prima col pittoresco nome di Polka Tulka Blues Band e poi di Earth. La stessa operazione che in quegli anni porteranno avanti i rivali di sempre: Led Zeppelin e Deep Purple. Curioso notare come le band scelsero tre strade ben diverse, nel loro percorso di affrancamento dalle radici; più verso il folk celtico gli Zeppelin, più verso un raffinato crossover ai limiti del prog, con abboccamenti funky, i Deep Purple. I Black Sabbath no, loro appesantirono sempre più il suono e la strumentazione e resero sempre più macabri e cupi i temi affrontati, sulla scia di band come Vangelis, Black Widow ma anche gli italianissimi Jacula; con risultati estremamente superiori, sia per qualità che per successo.

Paranoid” si sarebbe dovuto inizialmente intitolare “War Pigs”, come il brano che apre il lavoro e come si può intuire dalla copertina, non proprio riuscitissima. Un attacco frontale contro i “porci della guerra”, che ben sancisce la discesa in campo della band su temi sociali e non solo esoterici, come vorrebbe il banale storytelling che da sempre fa da sfondo alle vicende dei Black Sabbath. La guerra in Vietnam era però un argomento fin troppo caldo in quei giorni, e l’etichetta discografica preferì stemperare i toni – si fa per dire – preferendo intitolare l’album come un altro brano, “Paranoid”, appunto.

La storia del brano, forse il più celebre della discografia dei Black Sabbath, è quantomeno singolare; fu improvvisato da Tony Iommi attorno a un riff che gli girava in testa da un po’ e che si mise a suonare mentre gli altri erano in pausa pranzo. Al ritorno degli altri musicisti, il brano prese forma, come ricorda il batterista Bill Ward: “Se ne stava da solo in studio a suonare questa canzone. Geezer collegò il basso all’amplificatore, io mi sedetti alla batteria, e partimmo insieme a lui in automatico, con Ozzy che nel frattempo aveva cominciato a cantarci sopra.”

Il brano, una cruda disamina dei disturbi mentali, la depressione in primis, si distingue molto per atmosfere e strutture musicali – è molto più veloce e ritmato – dal resto dell’album, tanto che la band non vi faceva troppo affidamento; la produzione insistette e i fatti le diedero ampiamente ragione: “Paranoid”, col suo riff semplice e le strofe accattivanti, è ancora oggi considerato il brano più celebre dei Black Sabbath, un po’ come “Smoke on the Water” lo fu per i Deep Purple. Non il migliore, forse, ma di sicuro il più conosciuto.

L’album, come detto, si apre però con la lunga cavalcata di “War Pigs”, che doveva essere la title track. I maestosi power chord di Iommi, con una sirena anti bombardamenti sullo sfondo, aprono un brano che le band doom hanno mandato a memoria; poco dopo irrompe la voce di Osbourne, che sciorina liriche contro la guerra. Il lavoro di Iommi è encomiabile, con continui cambi ritmici e un andamento tipicamente anni ’70, ma è altrettanto importante il drumming di Bill Ward, un batterista forse non abbastanza celebrato. La parte centrale è tutta appannaggio degli assoli di Tony Iommi, dove la tecnica si prende sì il giusto spazio ma lasciando che sia il feeling a dire sempre l’ultima parola. Dopo una breve ripresa della strofa, il finale è ancora di Iommi con una celebre cavalcata di chitarra, conosciuta come “Luke’s Wall”.

Alla successiva “Paranoid”, di cui abbiamo già detto, segue un vero e proprio colpo di scena, uno dei brani più suggestivi e sorprendenti di tutto il canzoniere del complesso, “Planet Caravan”. Una cavalcata psichedelica, quattro minuti e mezzo di sperimentazione dalle atmosfere oniriche e ovattate. Su un magistrale tappeto di percussioni di Ward, si innesta il maestoso giro di basso di Geezer e il canto di Osbourne, la cui voce – filtrata attraverso un amplificatore Leslie – pare giungere direttamente dal sogno. Ma è ancora una volta Iommi a prendersi la scena, con una parte di chitarra psichedelica, quasi jazzata, dove Tony sfodera un suono morbido, rotondo e talmente fluido da evocare la sei corde di Jerry Garcia e dei suoi Grateful Dead. Certo, chi conosce superficialmente i Black Sabbath come band demoniaca, rimarrebbe estremamente stupito nel sentirli in questa veste; quasi dispiace che il brano duri così poco.

Segue un altro pezzo da novanta della carriera dei quattro di Birmingham: “Iron Man”.

Il riff ideato da Iommi per questo terribile apologo fantascientifico è pesante e al tempo stesso semplice, e diventerà uno dei riff più iconici del rock. Prototipo del doom e dello stoner di oltre vent’anni dopo, il brano pare quasi un racconto di Ray Bradbury: un uomo viaggia nel tempo e vede un futuro in cui l’umanità è devastata da guerre e violenza. Precipitosamente cerca di tornare nel suo tempo per avvisare l’umanità, ma nel viaggio qualcosa va storto e l’uomo subisce una paurosa mutazione: la sua pelle si tramuta in acciaio, perde la parola e acquista misteriosi superpoteri. Al ritorno verrà deriso da tutti e – impossibilitato a comunicare – deciderà di vendicarsi orribilmente sfruttando i suoi nuovi poteri. Solo a devastazione irreversibilmente avviata, si renderà conto di essere esso stesso la causa della distruzione vista nel futuro. Niente male per una band famosa più per il look esoterico che per i contenuti, vero?

Musicalmente il brano vede sempre sugli scudi la chitarra di Iommi e la funambolica batteria di Ward, oltre alla voce di Osbourne, come sempre lontana dalla perfezione tecnica ma estremamente espressiva.

“Electric Funeral” è ancora un pezzo dall’incedere lento e maestoso, inerente al doom in tutto e per tutto; come in “War Pigs” il tema è antimilitare, qui in una chiave ancora più cupa e post atomica. La seconda parte muta nel ritmo, che si fa più forsennato e vicino al blues, con la chitarra di Tony Iommi che doppia la voce di Osbourne, prima che il tema iniziale venga ripreso per portare a termine l’ennesimo capolavoro di questo disco.

“Hand of Doom”, a dispetto del titolo che evoca macabre atmosfere esoteriche, è un crudo affresco sulla dipendenza dall’eroina, degno delle pagine migliori dei Velvet Underground. Il brano narra infatti gli ultimi momenti di vita di un eroinomane che sta morendo di overdose; i continui cambi di atmosfera e ritmo paiono alludere ai saliscendi causati proprio dalla sostanza iniettata in vena. Poco dopo i due minuti il tema cambia completamente, con un riff che anticipa il futuro del doom e l’urlo quasi munchiano di Osbourne che narra disperato la cupa vicenda; l’atmosfera cambia ancora con power chord già tipicamente metal che introducono l’assolo di Iommi, breve e misurato, prima che il ritmo torni quello blando dell’inizio. Un brano che – se ce ne fosse bisogno – dimostra le grandi qualità tecniche dei quattro giovani metallari.

“Rat Salad” è invece una breve jam session, con la chitarra di Iommi che mena le danze prima con un riff tipicamente hard rock e poi con un breve solo di stampo psichedelico, fino a quando – a metà brano – un lungo assolo di Bill Ward si prende la scena. Era il tempo in cui ogni band che si rispettasse aveva in scaletta un lungo – e spesso temuto – assolo di batteria; in questo caso la lunghezza non è inusitata e il risultato davvero ottimo.

La conclusione spetta a “Fairies Wear Boots”, brano sulla cui origine non c’è troppa chiarezza. Tony Iommi sostiene che il titolo e il testo derivino da un curioso incontro al parco di Osbourne e Geezer: i due videro delle fate che si rincorrevano calzando stivali. Sebbene in quegli anni il consumo di droghe nel gruppo fosse davvero massiccio, la storia pare fin troppo peculiare. Un’altra versione, raccontata da Geezer, tira in ballo uno scontro con degli skinheads, chiamati in tono dispregiativo “fate con gli stivali”.

Quale che sia la verità, siamo di fronte all’ennesimo capolavoro di un disco perfetto; il riff di Iommi pare avanti di almeno dieci anni, quasi a evocare certe cose che suoneranno i Van Halen, mentre la strofa suona cupa e minacciosa come solo i Black Sabbath potevano essere all’epoca. Il canto di Osbourne è rabbioso ed efficacissimo, la chitarra di Iommi all’inizio flirta col blues, per poi diventare pesante come l’acciaio forgiato nelle fabbriche di Birmingham e chiudere strizzando nuovamente l’occhio alla psichedelia.

Paranoid” è sostanzialmente un disco senza difetti, perfettamente sospeso tra l’hard rock allora imperante e il futuro dell’heavy metal; un disco a suo modo rivoluzionario e che detterà le coordinate di un intero movimento per anni e anni, difficile chiedere di più a una band di giovanotti della provincia inglese del 1970.

Il valore aggiunto – che forse lo eleva una spanna sopra gli altri lavori dei Black Sabbath, che per molto tempo rimarranno notevoli – è la minore dipendenza da temi smaccatamente esoterici e misteriosi, a favore di un impegno sociale che sarà purtroppo accantonato in seguito.

— Onda Musicale

Tags: Deep Purple, Led Zeppelin, Ozzy Osbourne, Black Sabbath, Tony Iommi, Velvet Underground
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