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“Meddle”: i Pink Floyd arrivano al cuore del rock progressivo

Il 31 ottobre del 1971 esce “Meddle”, il sesto album dei Pink Floyd; il lavoro segue il successo diAtom Heart Mother e il relativo tour ed è preceduto dall’uscita di Relics, una raccolta di successi.

Per alcuni “Meddle” è da considerare una sorta di “Atom” senza l’orchestra; è sicuramente vero che la difficoltà nell’eseguire la lunga suite dal vivo, proprio a causa dell’impostazione sinfonica, abbia avuto il suo peso nella stesura dell’album; inoltre, la struttura stessa di “Meddle” è molto simile a quella del lavoro precedente, anche se rovesciata: in “Atom Heart Mother” la suite apriva il disco e il lato “B” ospitava pezzi più brevi, mentre in “Meddle” la suite – “Echoes” – occupa per intero la seconda facciata del vinile.

Detto questo, è d’obbligo notare come il disco goda pienamente di propria dignità; per alcuni è degno di stare al pari dei grandi capolavori della band ed “Echoes” è forse la loro migliore suite e il loro più alto esito progressivo.

Il disco ebbe una gestazione piuttosto lunga, fu infatti registrato a più riprese tra gennaio e agosto del 1971, per poi essere rilasciato il 31 ottobre negli USA e il 5 novembre in Gran Bretagna; a differenza di “Atom”, non ebbe molto successo negli Stati Uniti, dove per motivi oscuri venne pubblicizzato pochissimo. Meglio andò in patria e in Europa.

I brani la faranno inoltre da padrone nel celebre live registrato a Pompei, mentre il milionario disco della mucca rimarrà sempre una pagina particolarmente indigesta tra gli stessi membri della band; misteri del rock.

Quando i Pink Floyd iniziano a pensare di registrare materiale nuovo dopo la sbornia del primo grande successo con “Atom Heart Mother”, le idee sono piuttosto confuse; i giovani musicisti iniziano a provare ad Abbey Road per buttare giù qualche idea nuova. Subito emerge un fatto: gli studi di Abbey Road sono ormai ritenuti superati per la crescente complessità della loro musica, disponendo esclusivamente di registratori a otto tracce. Tutto viene allora spostato in altri due studi, più piccoli ma meglio attrezzati a livello tecnologico: gli AIR e i Morgan di West Hampstead.

Le idee, come detto, sono poco a fuoco e i Pink Floyd decidono di ricorrere ad alcuni stratagemmi; il più particolare è quello di suonare separatamente su una stessa base, sperando poi di unire i risultati con l’obiettivo di cavarne qualcosa di buono. Lo spregiudicato progetto, simile ma ancora più rischioso di quello di Ummagumma, non va a buon fine.

Grazie anche alla scelta di John Leckie come tecnico del suono (pare dettata dalla predilezione di questi a lavorare al mattino, quando i musicisti ancora dormivano), inizia a circolare un abbozzo intitolato “Nothing – Parts 1 to 24”. Attraverso un lungo lavoro il pezzo diventerà prima “Son of Nothing”, poi “The Return of the Son of Nothing” e infine la suite “Echoes”.

Le altre canzoni vengono fuori da un lavoro di gruppo della band che, d’ora in poi, non sarà mai più coesa, e specialmente dal lavoro combinato di David Gilmour e di un Richard Wright in stato di grazia. “Meddle” è infatti il disco preferito dei sostenitori dell’accoppiata Gilmour-Wright, a dispetto dei sostenitori del Deus ex Machina Roger Waters. Perfino la copertina – una misteriosa foto di un orecchio sott’acqua – viene curata dai Pink Floyd, mentre il fidato Storm Thorgerson è solo il curatore generale del progetto grafico. Che ovviamente non lo convince per nulla.

Ma è arrivato il momento di mettere sul piatto questo capolavoro e capire come suona.

Il disco si apre con uno strumentale tra i più iconici della band: “One of These Days”. Il brano gode di una popolarità particolare in Italia, soprattutto in virtù del suo utilizzo come sigla per due programmi Rai: prima per “TG2 Ring”, poi per la celebre trasmissione sportiva “Dribbling”. Per assurdo, per molti appassionati di calcio a digiuno di musica, ancora oggi il pezzo è noto come la sigla di “Dribbling”.

Il brano è completamente basato su un giro di basso martellante e ossessivo, pare originato da un riff di chitarra di David Gilmour; per registrarlo vennero impiegati due bassi, suonati da Waters e da Gilmour, filtrati attraverso il Binson Echorec della chitarra di David. Il giro di basso viene presto affiancato dagli svolazzi alla slide guitar del chitarrista, fino a che, verso metà brano, viene pronunciata la frase “One of these days I’m going to cut you into little pieces” (“uno di questi giorni ti ridurrò in piccoli pezzi”). La voce, irriconoscibile perché rallentata e filtrata elettronicamente, è quella di Nick Mason che, da questo punto in poi, diventa uno dei protagonisti del brano alla batteria, come si vede bene nel film del live di Pompei.

Secondo alcune dicerie – non si sa quanto fondate – l’inquietante frase era dedicata a Jimmy Young, disc jockey della BBC particolarmente inviso a Roger Waters. Anche qui i motivi sono oscuri. Il brano rimane sicuramente come una delle testimonianze più vivide della creatività del gruppo e di certe atmosfere stranianti in cui erano maestri.

La successiva “A Pillow of Wind” è una bella ballata, piuttosto peculiare nel canzoniere della band e – purtroppo – semisconosciuta. La grande particolarità è nel testo, scritto da Roger Waters: è una delle poche canzoni d’amore del gruppo. La musica è invece opera di Gilmour ed è basata sull’arpeggio di una chitarra acustica e il volo pindarico della slide; il canto di David è dolce, a riproporre le atmosfere bucoliche tipiche di varie ballate del periodo precedente a “The Dark Side of the Moon”. Per Nick Mason il titolo della canzone deriva da una possibile mano del Mahjong, gioco del quale la band si era appassionata durante le sue tournée.

La successiva “Fearless” è di nuovo una ballata divisa tra Gilmour (musica) e Waters che ne scrive il testo. Rispetto alla precedente il tenore elettrico è leggermente più sostenuto e l’atmosfera è a tratti quasi country; la (poca) celebrità del brano è dovuta all’inserimento – sullo sfondo nella prima parte e in primo piano nel finale – di “You’ll Never Walk Alone”, inno sportivo di alcune squadre di calcio inglesi, registrato durante “Liverpool vs Everton”.

La successiva “San Tropez” è l’unica canzone dell’album accreditata totalmente a Roger Waters; è anche, probabilmente, il pezzo più debole della raccolta. Il brano nasconde una timida critica sociale e parla della vita lussuosa ma vacua del protagonista, in quel di Saint Tropez. Anche in questo caso, la canzone è famosa più per un fatto collaterale che per la musica; a causa di una vecchia traduzione in italiano errata, per anni è circolata una bislacca leggenda metropolitana secondo cui in una strofa verrebbe citata Rita Pavone. Una leggenda cavalcata dalla stessa cantante italiana ma che, ovviamente, non ha nessun fondamento. (leggi l’articolo) L’andamento quasi jazzato del pezzo costituisce un unicum nella storia del gruppo.

La successiva “Seamus” è un ghiotto divertissement, a riprova di come la band – spesso ritenuta estremamente seriosa – fosse incline anche alla presa in giro e all’autoironia. “Seamus” era il cane di Steve Marriott, chitarrista di Small Faces e Humble Pie, ed è proprio lui il protagonista del pezzo, non solo del testo che ne descrive il comportamento in cucina sul far della sera, ma anche come perfomer d’eccezione; è infatti il cane a introdurre questo blues acustico coi suoi guaiti, e a punteggiarlo per tutta la durata con degli ululati, fino a un vero e proprio assolo finale. Il classico giro di blues è guidato da Gilmour all’acustica e alla slide (sempre acustica); completano il basso di Waters e il piano da vero bluesman di Wright. Nella versione del live di Pompei è invece Waters a suonare la chitarra (una Stratocaster, in questo caso), mentre Gilmour si cimenta all’armonica e Wright si occupa di tenere tranquillo il cane e di reggergli il microfono. In quel caso, Seamus viene sostituito da Mademoiselle Nobs, un levriero russo appartenente a un’amica del regista Adrian Maben.

Esaurito un primo lato abbastanza bizzarro, col cult di “One of These Days” e con episodi peculiari al limite del freak, voltando il vinile la musica cambia. Nel vero senso della parola.

Un suono a metà tra una goccia che cade e il Sonar di un sottomarino apre “Echoes”, suite di oltre ventitré minuti. Il suono è in realtà un “si” acuto di pianoforte e l’effetto straniante è ottenuto filtrando lo Steinway di Wright attraverso un amplificatore Leslie. L’introduzione, così come la sequenza degli accordi, è ideata da Wright, mentre la fase centrale dove il brano vira al funk, è opera di David Gilmour.

Sopra il piano filtrato di Richard Wright si staglia la chitarra elettrica di David che suona cristallina e rotonda: il tipico suono di Gilmour, nulla di particolarmente tecnico ma dotato di una suggestione irraggiungibile. Poco prima dei tre minuti entra la batteria e inizia la parte cantata, con Gilmour alla voce principale e Wright abilissimo nell’armonizzare.
 

Il testo, a opera ancora di Waters, ha toni quasi mistici e riecheggia i pensieri di un uomo rivolti probabilmente a Dio e la storia stessa della Genesi. Si tratta forse del primo testo del Waters come lo conosceremo da “Dark Side” in poi, più visionario e poetico che in precedenza.

Dopo due strofe cantate, la suite prosegue con lo splendido lavoro di Gilmour alla chitarra che si staglia sul crescendo strumentale, fino al break del settimo minuto che introduce la sezione funky; questa parte ospita passaggi alla slide quasi rumoristici e l’organo di Wright che puntella la parte ritmica. Su un tappeto vorticante di effetti ambientali, con un vento che pare spazzare via la parte funk, pare di udire le grida degli albatross citati nel testo, mentre la tempesta avvolge tutto in modo inquietante; in realtà gli striduli fischi psichedelici sono ottenuti con la tecnica del reverse applicata a un Cry Baby sulla chitarra.

È di nuovo un ispiratissimo Richard Wright a far riemergere la musica dalle nebbie psichedeliche con le sue tastiere. Il crescendo porta al rientro della chitarra, che si produce in un bordone sulle note basse, per poi improvvisamente sfociare nella ripresa delle strofe iniziali. Il finale regala una finezza compositiva con l’esecuzione di una Scala Shepard: si tratta del cosiddetto canone eternamente ascendente, una scala suonata contemporaneamente su diverse ottave differenti, dando l’effetto di una scala che sale di altezza in modo indefinito. Una sorta di illusione uditiva che deve il nome a uno psicologo, Roger Shepard. Esempi se ne trovano nella “Offerta Musicale” di Bach e nel brano I Am The Walrusdei Beatles. La durata della suite (23 minuti e 31 secondi), simile a quella della sequenza chiamata “Giove e oltre l’infinito” tratta da  “2001: Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrick, ha fatto nascere una curiosa leggenda: sovrapponendo la musica alle immagini sembrerebbe quasi che la suite ricalchi le atmosfere della sequenza.

Da qui, alcuni hanno ipotizzato che il brano fosse nato come proposta di colonna sonora; versione sempre smentita dagli interessati. Certo è che – poco dopo – Kubrick e i Pink Floyd non si accorderanno per utilizzare una parte di “Atom Heart Mother” in “Arancia Meccanica” e che, anni dopo, proprio Kubrick negherà a Waters il permesso di utilizzare la voce di Hal 9000 (il computer di “2001”) nella sua “Perfect Sense”.

Meddle” è insomma un capolavoro, per quanto un po’ altalenante tra una prima parte quasi disimpegnata e la seconda con “Echoes” che soverchia tutto il resto, che paga forse la sfortuna di trovarsi schiacciato tra due pezzi da novanta dei Pink Floyd: da una parte il rinnegato “Atom Heart Mother”, dall’altra “The Dark Side of the Moon”, che sarebbe arrivato di lì a poco, cambiando drasticamente le carte in tavola.

  Andrea La Rovere – Onda Musicale

— Onda Musicale

Tags: Rita Pavone, David Gilmour, Roger Waters, Richard Wright, Nick Mason, Echoes, Meddle, Pink Floyd
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