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Pink Floyd Live at Pompeii: un grandioso elogio della bellezza

Tra il 4 e il 7 ottobre del 1971, un lunghissimo cavo elettrico attraversava le vie della cittadina campana di Pompei, usciva dal centro abitato e proseguiva il suo percorso fino alle rovine romane, entrando nello splendido anfiteatro: era il cavo che portava la corrente ai sofisticati impianti di amplificazione e registrazione dei Pink Floyd.

Ma che ci facevano i Pink Floyd in uno dei siti storici più importanti di tutto il mondo? Siamo nel 1971 e la band di Roger Waters, David Gilmour, Nick Mason e Richard Wright è reduce dalla svolta progressive – di buon successo – di “Atom Heart Mother” e del relativo tour; a fine mese, poi, uscirà “Meddle”, uno dei lavori simbolo della prima parte di carriera, quella precedente al successo planetario, che contiene l’epica suite “Echoes”.

Al tempo il mondo del rock sta scoprendo le possibilità del medium cinematografico, all’indomani del grande successo del film sulla tre giorni del Festival di Woodstock.

I Pink Floyd, da sempre, frequentano il mondo del cinema in modo tangente, dalle colonne sonore per More e “La Vallée” di Barbet Schroeder, alla collaborazione poco fruttuosa con Michelangelo Antonioni per “Zabriskie Point”, fino ad alcuni lavori su commissione per documentari spesso a tema spaziale.

Adrian Maben (leggi l’articolo) è un regista scozzese, che presto sarà naturalizzato francese; un trentenne che ha la geniale idea di filmare la band inglese in un live del tutto peculiare.

L’idea iniziale di Adrian, quando contatta i ragazzi all’inizio dell’anno, è quella di associare alla musica del gruppo le immagini di grandi artisti della pittura, come De Chirico e Magritte; i Pink Floyd però declinano l’offerta.

In estate Maben si reca in vacanza con la fidanzata in Italia. Un pomeriggio, dopo aver visitato gli scavi di Pompei, convinto di aver perduto il passaporto, torna presso le rovine proprio all’ora del crepuscolo: Adrian rimane come folgorato dalla suggestione del luogo visto in quella particolare luce. Nella sua testa inizia a vorticare l’immagine del complesso che suona in perfetta solitudine, senza pubblico e – soprattutto – in quell’ambientazione mai vista prima: l’Anfiteatro Romano di Pompei.

I Pink Floyd stavolta sono entusiasti dell’idea, ma pongono alcune condizioni: nessun playback e la presenza dei consueti mezzi tecnici, per allora avanzatissimi, che impiegano in studio. E così, una serie di camion si sobbarcano il compito di trasportare tutte le attrezzature della band nella piccola cittadina campana.

Quando la troupe arriva sul posto, i tecnici si rendono conto di non avere abbastanza disponibilità di corrente elettrica per alimentare tutti i macchinari. Il problema viene risolto col famoso cavo, fornito dal Comune stesso e alimentato dalla corrente del Municipio. I disguidi accorciano sensibilmente i tempi previsti per filmare il concerto, tanto che le riprese effettive si concentrano in soli quattro giorni, tra il 4 e il 7 ottobre del 1971. La breve finestra temporale fa sì che non ci sia il tempo di registrare tutte le canzoni previste, che erano più o meno quelle che facevano parte della scaletta live del periodo, con l’aggiunta di due parti della lunga suite di “Echoes”.

Per risolvere la situazione si renderanno delle ulteriori giornate di riprese tra il 13 e il 20 dicembre, agli studi Europasonor di Parigi, dove la band suonerà altre canzoni illuminata solo da riflettori simili a quelli impiegati a Pompei; la sovrapposizione di alcune immagini girate tra gli scavi contribuiranno alla riuscita dell’innesto cinematografico, tanto che quasi non ci si rende conto della differente ambientazione. Inoltre, alcune bobine delle riprese vanno smarrite, evento a cui si deve il fatto che, durante l’esecuzione di “One of these days”, le inquadrature si concentrino quasi esclusivamente su Nick Mason, regalando un momento di gloria al membro più sfuggente del gruppo.

Il film è pronto per l’uscita nel 1972: il successo bacia da subito l’opera, sia nelle sale sia per la critica. Negli anni, poi, il live a Pompei diventa un vero e proprio cult per i fan.

Non si deve dimenticare, inoltre, che all’epoca i Pink Floyd, pur essendosi già guadagnati lo status di band di culto, erano un po’ degli oggetti misteriosi a livello visivo. Non avevano un frontman di carisma e presenza scenica come i Led Zeppelin, i Deep Purple, gli Who o i Rolling Stones, e i loro live erano talmente imperniati su rivoluzionari effetti visivi e speciali da nascondere quasi i musicisti dagli sguardi del pubblico.

La performance di Pompei mostra finalmente i quattro giovani in piena luce, con la qualità eccezionale del prodotto cinematografico e nello splendore della loro giovinezza.

Ma diamo un’occhiata più da vicino al film vero e proprio. La proiezione inizia con lo schermo completamente nero e la grancassa di Mason che riproduce il battito del cuore umano. Passa un minuto buono prima che si aggiungano altri strumenti e quasi due perché il nero si dissolva lasciando spazio alle immagini.

Ad apparire per prime sono le riprese di quel che resta della Pompei romana: sono immagini stupende, sottolineate dall’inquietante bordone musicale, ben diverse da quelle che siamo abituati a vedere nei classici documentari. Le note dei Pink Floyd ci calano da subito in un’inquietante atmosfera apocalittica, prima che i titoli inizino ad alternarsi a una inquadratura dall’alto dell’Anfiteatro, dove i roadie del gruppo stanno allestendo un po’ per volta il set. Pare quasi di essere degli intrusi, a osservare la scena da lassù, come se lo spirito di qualche antico cittadino della polis osservasse quegli uomini che, con tutta calma e la consuetudine dei gesti del loro lavoro, montano quegli strumenti tecnologici, dando vita a un favoloso anacronismo.

Il palcoscenico è pronto e i titoli annunciano l’inizio dello spettacolo; è il momento della prima parte di “Echoes”. Col quadro ancora nero si sentono le celebri note di piano filtrato che evocano quasi un sonar e siamo di nuovo lì, nell’Anfiteatro. La macchina inizia lentamente a zoomare sulla band, mirando alla batteria di Nick Mason, sovrastata dal celebre gong. Immagini di statue pompeiani si alternano in dissolvenza e finalmente appare il volto barbuto e quasi cristico di Richard Wright che inizia a declamare il verbo della band, dietro un microfono Sennheiser MD409.

Le immagini si spostano da Richard a David Gilmour, anche lui evidentemente suggestionato dalla magia del luogo, tanto da sfoggiare un’aura quasi mistica che collide con il suo abbigliamento di scena: quel giorno, pur essendo già autunno, a Pompei fa caldissimo, e il buon David – e con lui parte della troupe – si esibisce a torso nudo.

Il primo break strumentale fa da sottofondo alle immagini in controluce dei musicisti che passeggiano tra i fumi della Solfatara di Pozzuoli, alternandosi ai volti di pietra delle antiche statue pompeiane. Sono momenti di grande suggestione, uno sposalizio rituale tra antico e – allora – modernissimo che, lungi dal risultare straniante, dà vita a una vera e propria magia irripetibile.

Tra effetti in voga all’epoca, come lo split screen che divide in molteplici rettangoli il primo piano delle mani di Gilmour sulla chitarra durante l’assolo e l’assatanato Mason in canottiera e occhialoni da sole che pesta sulle pelli, si arriva alla sezione funky, con movimenti di macchina lenti e suggestivi. Inquadrando il gruppo di spalle, Maben pare insistere sul contrasto tra gli ingombranti macchinari moderni e l’immutabile bellezza classica delle rovine.

Il canovaccio che segue è il medesimo, sia per le parti riprese a Parigi che per i brani eseguiti a Pompei: i musicisti che si esibiscono quasi in trance mistica e le immagini della bellezza senza tempo dello sfondo archeologico.

I brani in studio sono: “Careful with that axe, Eugene”, “Set the controls for the heart of the sun” e “Mademoiselle Nobs”; quest’ultima è una bizzarra versione di “Seamus”, il breve blues presente in “Meddle” coi latrati di un cane. Per questa riproposizione, i Pink Floyd si avvalgono di Nobs, un levriero russo di proprietà di una famiglia circense parigina amica di Maben. Altra particolarità e la divisione dei ruoli tra gli strumentisti: Gilmour suona l’armonica, Waters la chitarra ritmica, mentre Wright è impegnato nel porgere il microfono al levriero.

Le altre canzoni registrate nell’Anfiteatro Romano sono una bellissima versione di “A saucerful of secrets”, con l’ampia sezione “Celestial Voices” in cui Gilmour, accarezzato dal vento, pare davvero in pieno trasporto mistico, “One of these days” e la seconda parte di “Echoes”.

“One of these days” è appannaggio quasi esclusivo di Mason, per i motivi di forza maggiore già detti, e Nick si prende la scena da par suo. Tanto è stato detto, spesso maliziosamente, sulle capacità tecniche di Mason: non stiamo qui a dilungarci, ma non di sola tecnica vive la leggenda di un artista, e in questo brano il feeling e lo spettacolo che offre il batterista sono di prim’ordine, si veda il frangente in cui sostituisce la bacchetta che gli è volata per la troppa foga: baffoni ottocenteschi, fascia a tenere i capelli e sguardo spiritato, Nick Mason è in questa canzone una vera icona del suo tempo.

La seconda parte di “Echoes” chiude la magia di questo film concerto così come era iniziata, con la ripresa dall’alto del teatro.

Il live a Pompei dei Pink Floyd è un prodotto artistico che ha segnato la sua epoca e continua tuttora a essere un vero culto, tanto che nel 2017 David Gilmour è tornato a esibirsi nella suggestiva arena. Ancora oggi lo spettatore è colto da una sorta di “Sindrome di Stendhal”, di fronte a tanta bellezza: uno spettacolo che mette d’accordo tutti i sensi e gli amanti della cultura classica come quelli del rock più psichedelico.

Un miracolo che solo i grandi artisti possono riuscire a compiere.

— Onda Musicale

Tags: Roger Waters, Richard Wright, Nick Mason, Rock, Adrian Maben, Pompei, Prog Rock, Psichedelia, Pompeii, Pink Floyd, David Gilmour
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