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Nick Mason, un tranquillo gentiluomo del rock

A vederlo oggi, quasi alla soglia degli ottant’anni, pare un vecchio gentiluomo di campagna, col viso rubizzo e l’aspetto di un anziano signore uscito da una puntata de “L’Ispettore Barnaby”. E invece stiamo parlando di Nick Mason, una delle più grandi glorie viventi del periodo d’oro del rock, vissuto dietro la batteria dei Pink Floyd.

Nato il 27 gennaio del 1944, in quella generazione che spesso porterà i segni della Seconda Guerra Mondiale – chiedere a Roger Waters – Nick fa parte dei ragazzini fortunati. Il padre, Bill Mason, è un regista di documentari molto quotato, la madre ha invece la passione per il pianoforte e per le sonate di Debussy. Dal padre, Nick, prenderà la malattia della velocità, dalla mamma l’istinto per la musica e l’arte. Bill è infatti un appassionato di motori e pilota amatoriale – Gentlemen Driver, li chiamano in Inghilterra – e i suoi film sulle gare, da Le Mans alla Mille Miglia, hanno talmente successo che l’uomo si può permettere di regalare al figlio ancora adolescente una costosa Aston Martin.

Musica e motori saranno le due parole chiave, per Nick. All’inizio – fortunatamente, verrebbe da dire – è la prima ad imporsi.

Spostatosi dalla nativa Hampstead per studiare alla Frensham Heights School , vicino a Farnham , Surrey, il giovane Nick passa poi al Politecnico di Regent Street, attuale Università di Westminster; qui fa lega con alcuni ragazzi, l’ombroso Roger Waters, il carismatico Syd Barrett, il timido Richard Wright e Bob Klose, uno che perderà il treno della vita. Il tempo è quello del fermento musicale e delle band formate dalla sera alla mattina per suonare nelle cantine di Londra: i ragazzi non si fanno pregare e formano i Sigma 6. Ancora nessuno sa che – col nome di Pink Floyd – quel complesso messo su per scherzo cambierà la storia del rock.

Le vicende dei Pink Floyd sono fin troppo note a tutti per stare qui a rievocarla per l’ennesima volta, la vita di Nick, invece, è spesso rimasta nascosta nell’ombra, proprio come la sua batteria sui palchi di tutto il mondo, sovrastata dalla fama del gruppo, ma anche dall’ego ipertrofico di Roger Waters e dalle folle adoranti perse a osannare la chitarra di David Gilmour. Eppure il buon vecchio Nick ne ha di primati da sfoggiare; intanto è l’unico membro fondatore ad aver fatto sempre parte della band, inoltre è anche l’unico a suonare in tutti i dischi targati Pink Floyd. A parte alcuni interventi vocali – soprattutto parlati o pesantemente filtrati – non ha mai cantato ufficialmente un pezzo solista, e il suo apporto alla composizione è stato sempre abbastanza defilato.

Gli unici brani completamente composti da Mason sono infatti “The Grand Vizier’s Garden Party Parts 1–3” dallo sperimentale “Ummagumma” e “Speak to Me” dal celeberrimo “The Dark Side of the Moon”. E la composizione, da sempre, non è l’unico punto debole rimproverato a Mason: i critici si sono spesso accaniti sulla sua presunta debolezza tecnica dietro le pelli, specie se raffrontata a tanti giganti della batteria a lui contemporanei. La tecnica di Mason – effettivamente – non ha nulla di particolarmente innovativo o speciale, tuttavia il suo drumming è perfettamente funzionale al suono dei Pink Floyd, e alcune sue intuizioni rumoristiche e ambientali vanno ben oltre i meri aspetti tecnici.

Il ruolo e la figura di Nick Mason ricordano quelli un po’ defilati di altri famosi gruppi musicali; per rimanere nell’ambito del suo strumento, viene facile il confronto con Ringo Starr, il cui apporto ai geniali Beatles viene ancora oggi troppo spesso liquidato come quello di un musicista mediocre che si è trovato al posto giusto nel momento giusto. E come Ringo, Nick Mason si staglia nel mondo narcisista del rock – specie di quell’epoca – anche per le sue qualità umane.

Intanto, è l’unico della band – e forse di tutto il pianeta – a poter vantare la decennale collaborazione con David Gilmour e Roger Waters senza mai aver avuto contrasti, tanto da fare negli anni spesso da collante tra le varie iniziative soliste e le rare reunion.
E proprio la riunione della band – come fosse un novello Joliet Jake dei Blues Brothers – è forse il più grande rimpianto di Nick: ci ha sempre creduto, ha sempre tentato di mediare tra le posizioni opposte di Gilmour e Waters e ha continuato a collaborare con entrambi, proprio con l’obiettivo di riunire i Pink Floyd. Solo la morte dell’amico Richard Wright gli ha fatto gettare la spugna in un’impresa degna della lotta di Don Chisciotte contro i mulini a vento.

Una figura, quindi, rimasta spesso dietro le quinte, a maggior ragione se consideriamo che i Pink Floyd non sono mai stati una band da copertina, da frontman adorati da sciami di fan urlanti, ma che ha saputo godersi la vita senza tanti patemi. Sposato a lungo con Lindy, che lo aiutò suonando il flauto nella parte di “Ummagumma” a lui destinata, si è poi unito in seconde nozze a Nettie, un’attrice di qualche fama che lo affianca tutt’ora. Abile e oculato investitore, il buon Nick ha messo insieme un patrimonio senza rivali nel mondo del rock, dedicandosi finalmente alla sua grande passione per le auto.

Come pilota amatore vanta risultati più che buoni, con ben cinque partecipazioni alla 24 Ore di Le Mans, dove è anche giunto secondo e terzo di classe nel 1979 e nell’80. Ma il suo traguardo più prestigioso, nell’ambito dei motori, Nick lo ha raggiunto come collezionista: dalla Panhard et Levassor del 1901 all’Alfa 8C, passando per autentiche perle quali una Bugatti 35B metà anni Venti, l’Aston Martin Ulster LM 18 (1935), la Maserati 250F (1954), una Jaguar D-Type (1955), la Lotus Elan 2+2 (1969), la Lola T297 con cui corse a Le Mans, una Porsche 928 S (1983)e una rara McLaren F1 GTR (1995). Non basta, tante sono le Ferrari di Nick, compresa una 312 T3 con cui gareggiò Gilles Villeneuve.
Ma il suo capolavoro risale più o meno ai tempi di quelli che suonava coi Pink Floyd. Nel 1977 acquistò una Ferrari 250 GTO per “appena” 37mila sterline, proprio coi proventi di “The Dark Side of the Moon”: oggi l’auto ne vale più di 30 milioni.

Insomma, l’esistenza di Nick Mason è quella di un uomo fortunato, dal quieto talento e non sporcata da un ego eccessivo; emblematico è anche il caso del celebre live a Pompei del 1972. In quel film, Mason, l’uomo nell’ombra, ha il suo grande momento da protagonista: per tutta la durata di “One of These Days”, l’occhio del regista Adrian Maben segue la sua selvaggia performance alla batteria senza staccare mai. La scena è splendida, tra effetti come lo split screen, suggestione della musica e Mason che percuote la batteria in modo assai scenografico, ma pochi sanno che fu solo un’esigenza forzata a proiettare il batterista in primo piano: alcune bobine erano andate smarrite, e le riprese di Nick Mason in quel brano erano le uniche disponibili.

Oggi il batterista – come detto – si avvia verso gli ottant’anni, eppure è ancora estremamente attivo, con un’iniziativa che definiremmo meritoria. Nel 2018, quasi a voler rendere onore a Syd Barrett e ai primi tempi – spesso colpevolmente dimenticati – dei Pink Floyd, Mason ha formato una nuova band, i Nick Mason’s Saucerful Secrets. Le dichiarazioni sul suo patrimonio – da lui stesso giudicato spropositato – forse sono state la molla per rimettersi in pista a quasi settantacinque anni, nel tentativo di riportare in auge il primo repertorio della band e, forse, anche per dimostrare che le canzoni e le qualità strumentali di quei giovani della fine degli anni Sessanta, stanno in piedi anche senza i soliti impianti di luci e le teatrali scenografie di Roger Waters.

Il progetto, accolto dubbiosamente da molti, è stato fermato solo dalla pandemia, e si è rivelato assai sfizioso per i fortunati che hanno potuto assistere ai live. La band è composta – oltre che dall’arzillo Mason – da Guy Pratt, Lee Harris, Dom Beken e Gary Kemp, chitarra e voce, già negli Spandau Ballet. Il repertorio è tratto per la gran parte da “The Piper at the Gates of Dawn” e da “A Saucerful of Secrets”, i primi due album, quelli dove l’apporto del diamante pazzo Syd Barrett era ancora ben presente.

Una piccola rivincita verso chi l’ha sempre considerato l’anello debole dei Pink Floyd, e forse anche verso chi conosce la band solo per i rutilanti classici milionari; un invito, di sicuro, a riscoprire una pagina di creatività irripetibile.

— Onda Musicale

Tags: Pink Floyd, David Gilmour, Roger Waters, Richard Wright, Nick Mason, Ferrari
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