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Un disco da maneggiare con cautela: The Final Cut dei Pink Floyd (anzi di Roger Waters)

Riportiamo un interessante  articolo di Andrea Scanzi. Ecco il link all'articolo originale tratto dal suo sito personale.

Perché parlo di The Final Cut dopo Animals e Wish You Were Here? Ci sono dischi dei Pink Floyd più famosi e riusciti, certo, ma da una settimana l’agognato “taglio finale” del Mirabile Nevrastenico ha (ri)cominciato a stregarmi. Perché? Boh, che ne so.

The Final Cut è uno dei dischi più divisivi e sottovalutati della storia del rock. I gilmouriani, in questa lotta idiota tra “fan di David” e “adepti del Messia Livido Roger”, lo odiano perché ormai Waters aveva preso il sopravvento. E in generale lo si conosce poco. E’ un peccato: non è un album perfetto, ma è ricco di intuizioni, vanta non poche meraviglie e mostra tutti i demoni di Roger.

E’ qui, persino più del solito, che un artista tanto geniale quanto ferito mette a nudo ogni suo incubo e cicatrice. Ascoltando questo disco – lasciatevelo dire da chi lo sta facendo ininterrottamente da giorni – è come se si toccassero con mano tutti i fantasmi di Waters: la sua follia, la sua paranoia, il suo dolore. 

E’ un ascolto claustrofobico, quello che vi (ri)attende. Ma è un ascolto necessario, vuoi perché il “peggior” Waters (ma peggiore de che, poi?) è comunque divino e vuoi perché c’è una qualità letteraria enorme. Ogni brano nasconde variazioni, cambi di registro, rivoli inattesi. E’ un calvario in musica: un bel calvario, giusto e coraggioso. Tanto politicamente (poche opere sono così infarcite di nomi e cognomi) quanto umanamente (a ogni canzone viene voglia di abbracciare Roger e dirgli: “Dai, ti voglio bene, non fare così).

I Pink Floyd non esistono più. Divisi durante Animals, esplosi durante The Wall. Cito a memoria Nick Mason, per farvi capire il clima: “Quando Roger se n’è andato, ci siamo sentiti come l’Unione Sovietica dopo la morte di Stalin“. Waters ha allontanato definitivamente Richard Wright, adducendo problemi matrimoniali e di cocaina (che il tastierista ha sempre negato).

E’ l’unica cosa che non perdono a Roger: Richard non andava toccato. Lo scontro era già stato totale durante The Wall, al punto che Wright durante il tour fu relegato a “turnista” (curiosamente fu anche l’unico dei quattro a essere pagato, perché in quanto “turnista” doveva essere la band – che si svenò durante il tour di The Wall – a pagare i musicisti). Waters sostituisce Wright con Andy Brown e Michael Kamen. E sostituire un Pink è durissima. Negli anni immediatamente successivi, per sopperire alla mancanza di Gilmour, Waters dovrà infatti sparare altissimo e cercare prima Eric Clapton (The Pros And Cons of Hitch-Hiking) e poi Jeff Beck (Amused To Death: ascoltatevi la sua chitarra in What God Wants e godete selvaggiamente).The Final Cut nasce ex novo, anche se qualche brano è in realtà uno “scarto” daThe WallIl titolo iniziale era Spare Bricks, “Mattoni avanzati”.

Waters aveva già scritto The Pros And Cons, che secondo Mason era superiore a The Wall(parliamone). Come ultimo capitolo dei Pink, Roger preferì però scrivere questo ennesimo concept album, stavolta dedicato al “requiem per il sogno del dopoguerra“. Un sogno, va da sé, ucciso anzitutto da “Maggie”. Cioè l’odiata Thatcher.

E’ a tutti gli effetti, o quasi, il primo album solista di Waters e non l’ultimo dei Pink. Le atmosfere sono radicalmente cambiate, proseguendo lo stile di The Wall e anticipando quel capolavoro totale che sarà Amused To Death. Nel retrocopertina, non a caso, c’è scritto: “di Roger Waters, eseguito dai Pink Floyd“.

Gilmour e Mason hanno un ruolo marginale, al di là di due o tre assoli celestiali di David di cui parlerò tra poco. La copertina è una delle più brutte nella storia dell’uomo e anche questo non ha aiutato.

Il Divino Roger, che qui scopre l’olofono (microfono particolarissimo), esacerba quel suo cantato contronatura, fatto di parole scandite e/o sussurrate – che paiono giungere direttamente dall’Ade – e urla dilaniate non riproducibili da nessuno, se non dalla sua Ugola Folle.

Al disco non fece seguito alcun tour. Curiosamente gli unici che volevano intraprenderlo erano Gilmour e Mason: fu il Dux Waters a dire no, prima di andare in causa con la band (perse lui). L’album uscì il 21 marzo 1983. Dodici tracce, tredici nella edizione del 2004. Tanto per infondere ulteriore allegria, è pieno di suoni inquietanti, schegge fosche e bombe.

Tante bombe. Waters, forse il pacifista più incazzato del mondo dopo Gandhi (che però l’incazzatura la celava benissimo), si scaglia contro l’assurdità della guerra delle Falkland, immagina di ricoverare i grandi (stronzi) della Terra in un ospizio che ha il nome del padre morto ad Aprilia e tocca apici celestiali quando pronuncia sadicamente “glitterati” (“gli-de-rad-di”). E’ qui che si nota, persino più del solito, quella sua maniera di pronunciare le parole sollevando il labbro superiore ai lati (“The Final Caaaaat“), che lo porta a esibire una smorfia giustamente luciferina. Più che cantare, sentenzia. Più che suonare, ci regala un de profundis allucinato eppure lucidissimo. Analizziamo i brani.
 

The Post War Dream. Si parte con una gran gioia di vivere. Un bell’organo da funerale, poi le prime parole: “Dimmi la verità, dimmi perché Gesù fu crocifisso?/ E’ per questo che papà è morto?/ Era per te, ero io?“. Torna il tema della morte del padre, che qui domina molto più che in The Wall. E torna quel senso di colpa per la sua morte, esplicitato da Roger in un passaggio esiziale del film Roger Waters – The Wall del 2015. Il momento in cui Waters scandisce “What have we done/ Maggie, what have we done“, e poi fa la pausa prima di sillabare “to En-gland“, è una delle cose più solenni che abbia mai ascoltato: io amo quest’uomo.
Your Possible Pasts. Alcune frasi del ritornello vengono lette nel film The Wall di Alan Parker da quel citrullo querulo di Bob Geldof. La canzone racconta una volta di più l’impossibilità dei soldati di rifarsi una vita, dopo i demoni della guerra. La voce di Waters saltella dagli Inferi alla Morte come un po’ in tutto l’album, dando l’abbrivio a un assolo notevole di Gilmour: uno dei pochi momenti in cui ci si accorge che, nel disco, c’è anche David.
 

One Of The Few. Scartato da The Wall, comincia con un ticchettio e vede protagonista l’insegnante odioso di The Happiest Days Of Our Lives, che qui però è meno carogna e appare come un reduce della Seconda Guerra Mondiale. Il titolo è una citazione da Winston Churchill. Per motivi ignoti, da ragazzo era una delle canzoni che amavo di più. E questo spiega forse molte cose.
When The Tigers Broke Free. Nella versione del 1983 non c’era, mentre compariva – diviso in due parti – nel film di Alan Parker. Interamente dedicato a Eric Fletcher Waters, padre di Roger morto ad Aprilia nel 1944 dopo lo sbarco ad Anzio. Talvolta è scritto con la “y” in “Tygers“. Il titolo fa riferimento a un carro armato tedesco usato nella Seconda Guerra Mondiale, il Tiger I. E’ l’unico brano in cui compare Wright, alle tastiere e pure come seconda voce. Si racconta come il padre di Roger morì in “un miserabile mattino nell’oscuro ’44” e nessuno si salvò dei Fucilieri Reali della Compagnia C. Nell’ennesimo parossismo autobiografico, Waters ricorda anche la lettera che Sua Maestà inviò alla madre per dirle che il marito era morto (“Era, ricordo, a forma di pergamena“). La chiusura è straziante: “La maggior parte di loro morti/ il resto morenti/ ed è così che l’Alto Comando/ portò via mio padre da me“. I demoni di Waters hanno raggiunto il grado 3000 della Scala Richter.
The Hero’s Return. Tutti in piedi: è un brano pazzesco, nel testo (come tutto l’album) e nella costruzione musicale. Era il lato B di Not Now John, dove peraltro è presente una versione più lunga. Anche qui si comincia con una citazione cristologica (“Gesù Gesù, ma che cos’è tutto questo provare/ a far filare dritti questi poveri ingrati?“). Doveva far parte di The Wall col titolo di Teacher Teacher.L’eroe torna dalla guerra e ricorda le feste che lo accolsero, ma ora tutto è lontano e l’unica cosa che gli rimane sono le parole del’artigliere (gunner) morente. Voglio segnalarvi il cantato del Divino in questo passaggio: “Sweetheart sweetheart, are you fast asleep“. Qui Roger fa una pausa e, con tratto gutturale e anzi cavernicolo, aggiunge: “Good“. Ecco: qui scivoli nell’abisso e fai “ciao ciao” a Caronte, mentre Waters è chissà dove in giro con la sua ascia rubata aEugene. E non sta per niente careful nell’usarla.

The Gunner’s Dream. Ci siamo: scopriamo le ultime parole dell’artigliere morente. E’ una delle canzoni più intense del disco e ogni tanto Waters l’ha ripresa dal vivo. Il brano è introdotto da una esplosione, poi a metà canzone suonano le campane a morto (alè, allegria). Prima di morire, l’artigliere si congeda dalla famiglia e dal mondo con un sogno. Che è poi il sogno di Waters. La prima parte, al piano, è particolarmente toccante. L’artigliere immagina un mondo “dove i vecchi eroi passeggiano tranquillamente“, dove si possono esprimere dubbi e paure “a voce alta” e dove – soprattutto – “nessuno uccide più i bambini”. Sontuoso il sassofono di Rafael Ravenscroft, encomiabile l’apporto della National Phylarmonic Orchestra. Se non vi commuovete, avete un problema grave al condotto lacrimale.

Paranoid Eyes. Canzone straordinaria. Waters tratteggia la condizione frustrante di chi torna dalla guerra ed è costretto a mascherarsi da uomo “normale”, trincerandosi dietro “occhi paranoici” e poi “pietrificati“. Il crescendo è poderoso, il pianoforte di Michael Kamen ti avvolge e c’è simbiosi rara tra voce, apertura centrale di chitarra (roba pazzesca) e i soliti rumori angosciati di fondo – bambini che schiamazzano, marce militari, musiche marziali. E cosa resta? Quasi nulla: “Ora sei perso nella nebbia/ d’una rammollita mezz’età alcolizzata/ Alla fine il miraggio si è rivelato esser lontano miglia/ E tu ti nascondi/ Dietro miti occhi castani“. Dategli subito il Nobel. Su-bi-to.
Get Your Filthy Hands Off My Desert. Si può raccontare quella idiozia totale chiamata Guerra delle Falkland in neanche un minuto? Sì, se ci si chiama Waters e si dà del tu al Genio da quando si è nati. E quindi (dopo un’altra bomba introduttiva): “Breznev s’è preso l’Afghanistan/ Begin s’è preso Beirut/ Galtieri ha preso la bandiera Inglese/ E Maggie un giorno durante il pranzo/ Ha preso un incrociatore con tutte e due le mani/ Per farsela restituire, a quanto pare“. (Per la cronaca: da ragazzo ero in fissa con la strofa “Galtieri took the Union Jack“, che ripetevo anche e soprattutto quando non c’entrava una mazza. E pure questo spiega tante cose).
The Fletcher Memorial Home. In uno dei suoi momenti più ispirati di pacifismo, Waters immagina che i potenti della Terra vengano ricoverati in una casa di riposo che ha il nome del padre, dove possano restare eterni bambini – bambini idioti, ovviamente – e giocare alla guerra. Sfilano tutti i mostri dell’epoca: da Reagan a Haig, dalla Thatcher a Begin. Fino al fantasma di McCarthy e ai ricordi di Nixon. E poi un gruppo stupido di “ricchi (“glitterati“) latinoamericani imballa-carni”. Qualcuno, sullo sfondo, chiede in italiano “scusi dov’è il bar?“. Così Waters: “Portate tutti i vostri infanti troppo cresciuti/ Via da qualche parte/ E costruitegli una casa/ Un posticino tutto per loro/ La Fletcher Memorial/ Casa per tiranni incurabili e re”. E lì fateli giocare alla guerra: “boom boom, bang bang“. Di pregio l’assolo di Gilmour, che ricorda quello (titanico) di Comfortably Numb.
 

Southampton Dock. Waters tiene molto a questo piccolo brano: l’ha ripreso anche nel live In The Flesh del 2000. La canzone precedente si è chiuso con la “soluzione finale da applicare“. Qui si racconta di una donna nel molo di Southampton, “nocche bianche” e “quieta disperazione“. Chitarra morbida e cambio di passo col piano, quindi – ancora – il “final cut”: “Nel fondo dei nostri cuori/ Sentimmo il taglio finale“.
The Final Cut. Sì, ma che cos’è esattamente questo “taglio finale“? Waters, tanto per cambiare, parla soprattutto con se stesso e col suo desiderio di tagliare radicalmente col passato. E per passato intende non tanto i Pink Floyd, quanto i sensi di colpa per la morte del padre: “Non ho mai avuto la forza di dare il taglio finale“. La canzone che dà il titolo al disco, impreziosita da un assolo totale di David, è un altro apice lunare. Sogni e realtà, paure e fantasie: uno dei migliori affreschi esistenziali di Waters. Idolo.
Not Now John. Se qualcuno aveva bisogno della prova che Waters e Gilmour non avevano più nulla in comune, eccola qua. Un brano incasinato e sguaiato, l’unico in cui canta (male) David. Fu usato come singolo e vendette pure: mah. Non c’entra niente col disco, è la brutta copia di Young Lust. E’ come una scoria poco ispirata di un passato non più ripetibile. Tutto ha una fine: perfino i Pink Floyd. Cazzo.
 

Two Suns In The Sunset. Non poteva esserci finale più efficace. E ovviamente è un finale apocalittico. Canzone incredibile, che Roger chiama spesso “Two suns” e basta.

Ti stropiccia, ti stordisce, ti straccia. Soprattutto ti straccia. L’avrò ascoltata mille volte, e ogni volta quel sassofono tenore di Ravenscroft mi trafigge neanche fossi un San Sebastiano postmoderno.

I due soli al tramonto evocano una nuova esplosione nucleare. Ormai è tutto rovesciato e “il sole è ad est“: “Nel mio retrovisore il sole tramonta/ Annegando dietro i ponti della strada/ E penso a tutte le belle cose/ Che abbiamo lasciato incompiute/ E avverto delle premonizioni/ Sospetti confermati/ Dell’olocausto in arrivo“. Un bambino grida “Papà! Papà“, i freni si bloccano e scivoli con Waters contro l’autotreno: “Anche se il giorno è ormai finito/ Due soli nel tramonto/ Forse la razza umana è alla fine“.

Il sogno dell’artigliere è evaporato per sempre. E in fondo non siamo che polvere: “E mentre il parabrezza si scioglie/ Le mie lacrime evaporano/ Lasciando solo carbone da difendere/ Alla fine capisco/ Quello che in pochi sentono:/ Carbone e diamanti/ Nemico e amico/ Tutti siamo uguali/ Alla fine“.
Buon ascolto. E fate incubi belli, ché anche quelli servono.

 

di Andrea Scanzi  (link all'articolo originale tratto da suo sito personale)

— Onda Musicale

Tags: The Wall, Amused to death, The Final Cut, Andrea Scanzi, Pink Floyd, Wish You Were Here, David Gilmour, Bob Geldof, Animals
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